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ANNIBALE ALLE PORTE - LA GUERRA ANNIBALICA

Autore sconosciuto, sappiamo soltanto, da una sua nota, che affidò il testo ad un grammatico per renderlo più gradevole.

ANTEFATTI

I – "…………… Ventiquattro anni era durata la guerra (264 – 241 a.C.) che combattemmo prevalentemente in Sicilia e sul mare.
Ebbene, noi che non conoscevamo l'arte della guerra sul mare, nondimeno sul mare sfidammo i Cartaginesi.

Allestita con l'aiuto dei nostri alleati una piccola flotta attraversammo lo stretto che separa l'Italia dalla Sicilia, cacciammo il presidio Cartaginese da Messana (Messina) e la occupammo.

Tornato in patria il comandante del presidio, accusato di viltà, fu crocifisso.

Di lì a poco a nostra volta fummo attaccati dai Cartaginesi e dai loro alleati Siracusani, guidati dal re Gerone.


Gerone

Respingemmo ed inseguimmo i nemici.

Gerone riparò a Siracusa. Sdegnato con i Punici che erano fuggiti pensando unicamente alla propria salvezza e lasciandolo solo ad affrontarci, a sua volta li abbandonò e, passato dalla nostra parte, fino alla sua morte fu alleato fedele e generoso.

I nemici, sconfitti per terra, avanzarono per mare stringendoci da meridione e da settentrione.

Fu gioco forza accettare la sfida, perciò nel quarto anno di guerra varammo una flotta di oltre cento navi.

Erano consoli quell'anno (260) il patrizio Gneo Cornelio Scipione e Gaio Duilio, plebeo e homo novus (apparteneva cioè ad una famiglia che non aveva mai raggiunto una carica che comportasse l'esercizio del comando).


Gaio Duilio

Gneo Cornelio comandante della flotta, tradito dall'inesperienza, fu catturato dai Cartaginesi nella battaglia delle isole Lipari, meritandosi l'appellativo di Asina.

Io fui imbarcato nella flotta della quale era divenuto comandante Gaio Duilio.

Uomo sagace e avveduto, il console comprese che in uno scontro affrontato secondo le regole non avremmo avuto scampo. Pertanto escogitò uno stratagemma perché il combattimento sul mare fosse simile a quello sulla terraferma.

A questo fine dotò tutte le navi di una sorta di ponte mobile rialzato, che chiamammo corvo, alle cui estremità erano agganciati dei robustissimi uncini.

Così accadde che quando al largo di Milazzo le veloci navi nemiche vennero all'abbordaggio delle nostre pesanti imbarcazioni, di colpo calammo i corvi e grazie agli uncini immobilizzammo le imbarcazioni dei Cartaginesi.


Abbordaggio con l'ausilio dei Corvi

Passammo sopra i corvi e l'intera battaglia si trasformò in uno scontro corpo a corpo con i Cartaginesi.
Nel corpo a corpo siamo invincibili.

Gaio Duilio catturò trentuno navi nemiche, quattordici ne affondò, fece settemila prigionieri, tremila ne uccise.
Mai nessuna vittoria fu più gradita poiché, invitti in terra, ora dominavamo anche sul mare.
A Gaio Duilio il Senato decretò il trionfo.

Ho passato sul mare metà della guerra, il mio corpo porta ancora i segni di tante battaglie, ma sono tornato vincitore, mentre i miei due fratelli sono scomparsi nelle tempeste che per tre volte hanno inghiottito le nostre flotte nel mare siculo (andarono perdute oltre 750 navi). Quasi tutte le famiglie di Roma e delle città alleate pagarono alla guerra un tributo di sangue, ma almeno il suolo Italico era rimasto indenne."

II – In quel breve felice tempo della mia giovinezza (con queste parole l'autore del commentario si esprime in prima persona) mentre ascoltavo Claudio Taurilio non immaginavo che io stesso, qualche tempo dopo, avrei militato nell'esercito Romano per oltre trent'anni obbedendo prima, comandando poi.

Ora che sono vecchio sono stato spinto a scrivere questo mio commentario per rendere il dovuto tributo alla verità. Infatti nella case dei nobili potete leggere iscrizioni che attribuiscono alle loro stirpi meriti che mai hanno avuto e viceversa gettano su altri il discredito delle loro colpe e dei loro errori.

Di parte degli episodi che verrò a narrare sono stato partecipe, degli altri ho raccolto quelle testimonianze che mi sono sembrate più fedeli al vero.

È inclinazione comune quella di esagerare l'importanza delle battaglie combattute, pertanto ho seguito il criterio, dettato dall'esperienza, di dare priorità al numero dei prigionieri, poiché i morti ed i feriti vanno di solito conteggiati in proporzione, salvo i casi nei quali l'ira, o l'odio, ha provocato stragi: infatti i prigionieri hanno un valore o per essere riscattati, o per essere venduti quali schiavi, mentre i morti non hanno nessun valore.
Per questa ragione si tende a mantenere in vita i prigionieri.

Tornando a noi per comprendere le condizioni nelle quali maturò la guerra annibalica è necessario ricordare cosa accadde nell'intervallo tra la prima e la seconda guerra punica.

Dopo la conclusiva sconfitta (241), che Gaio Lutazio Catulo (anche lui un homo novus) inflisse ai Cartaginesi al largo delle isole Egadi

Roma impose al nemico condizioni dure, ma non insostenibili per una città tanto ricca.

Eppure non fummo noi Romani a mettere in pericolo mortale i Cartaginesi: la ragione fu ben diversa e imprevista.

Infatti Amilcare, soprannominato Barca che nella loro lingua vuol dire "Fulmine", mentre con straordinario valore guidava l'esercito nemico in Sicilia, promise ai mercenari uno stipendio e un premio che a fine guerra Cartagine non volle pagare, adducendo la scusa delle presenti difficoltà.

Gaio Lutazio Catulo Amilcare

I mercenari insorsero e per tre anni infuriò una guerra di indicibile ferocia.
La stessa Cartagine rischiò di essere distrutta.

Incredibile a dirsi per salvare Cartagine intervenimmo via mare garantendo agli stessi Cartaginesi i necessari approvvigionamenti. Infine la rivolta fu domata, ma Cartagine restò più divisa che mai tra il partito di Annone (il partito dei proprietari terrieri) e quello di Amilcare Barca.

Annone sosteneva che l'interesse di Cartagine era quello di consolidare ed estendere i propri territori in Africa ed evitare per il futuro nuovi conflitti con Roma.


Annone

Amilcare, e qui ebbe un ruolo fondamentale l'inimicizia tra i due, sosteneva invece che Cartagine poteva prendere il controllo di almeno una parte della Spagna e risollevarsi grazie alle ricchezze di quella terra.

Tale era la situazione quando (238) la Sardegna si ribellò ai Cartaginesi e noi forzata la mano occupammo l'isola. Cosa che per le continue ribellioni dei Sardi ci impegnò per lunghi anni (almeno fino al 235).

In realtà il trattato di pace stipulato con Cartagine era a riguardo equivoco, infatti diceva che Cartagine doveva cedere a Roma tutte le isole tra la Sicilia e l'Italia. La Sardegna era ricompresa tra queste o no?
Probabilmente no.

In ogni caso noi, considerato che i Cartaginesi avevano perso il controllo dell'isola, ritenemmo imprudente lasciare la Sardegna in mano a ribelli che con ogni probabilità si sarebbero dati alla pirateria.

Poiché i Cartaginesi, quando scoppiò la rivolta Sarda, si erano armati per riprendere l'isola, sentirono questo nostro atto come una oltraggiosa prevaricazione che, nel presente stato di debolezza, erano costretti a subire. Quindi la riconoscenza che avevamo meritato per l'aiuto fornito nella guerra contro i mercenari, svanì.
Restò un cupo rancore che favorì i sentimenti anti-Romani a danno del partito di Annone considerato nostro amico.

III – Si è molto favoleggiato circa l'odio di Amilcare Barca verso i Romani, ma queste sono vane chiacchere. In verità se Amilcare nutriva un profondo risentimento, questo era rivolto verso i propri connazionali, che impreparatissimi affrontarono i Romani nella decisiva battaglia navale delle Egadi, nella errata convinzione che noi avessimo rinunciato a combattere per mare e per tale imperdonabile imprevidenza subirono la catastrofica sconfitta che obbligò Amilcare stesso, quale comandante in capo in Sicilia, a firmare il trattato di pace. Per di più decaduto dal comando delle forze Cartaginesi in Sicilia, Amilcare dovette tornare in patria da privato cittadino.

Peggio ancora, mentre prudentemente Asdrubale Gisgone, subentrato nel comando, riportava i mercenari in Africa a piccoli contingenti, i Cartaginesi ebbero l'insana idea di riunirli tutti nello stesso luogo e per di più con le proprie famiglie, creando le condizioni per la loro rivolta e la triennale guerra detta Libica.


Asdrubale Gisgone

Non contenti cercarono di pagare ai mercenari solo in parte gli stipendi e i premi promessi, incolpando soprattutto Amilcare di avere promesso premi esorbitanti. Quando poi i mercenari ricorsero alla violenza, allora iniziarono a cedere su tutta la linea.

In tali condizioni Amilcare in patria non aveva alcun futuro, visto che l'unica opzione praticabile era quella di estendere in Africa i territori di Cartagine, ma questa era la politica di Annone dal quale lo dividevano insanabili contrasti. Dunque quando (nel 237), attraversato il mare con pochi dei suoi, approdò in Spagna a Gades (Cadice), non senza difficoltà, scelse l'unica strada possibile per un uomo delle sue ambizioni.
In pari tempo dovette pensare che si era spinto tanto ad occidente da non attirare su di sé le attenzioni di Roma. Per di più non cercò di dotarsi di una flotta, condizione indispensabile per scendere in campo contro Roma.
Per tutte queste ragioni appare del tutto insostenibile pensare che Amilcare (nel 237) sia andato in Spagna per farne la base dalla quale attaccare Roma (la guerra contro Roma iniziò nel 218).

Tra l'altro Amilcare partì per Gades come privato cittadino senza nessun mandato del senato Cartaginese. Tuttavia questo valorosissimo condottiero combattendo incessantemente per otto anni, creò in Spagna quello che nella realtà divenne il regno dei Barca.

Morì in battaglia nel 229. Gli successe il genero Asdrubale detto Maior ed anche il Bello per distinguerlo da Asdrubale Barca, secondo figlio di Amilcare.

Sia Amilcare che Asdrubale Maior appena ne ebbero l'opportunità inviarono a Cartagine cospicui rifornimenti e, avendo rimesso in funzione le ricche miniere spagnole, anche l'argento necessario per pagare a Roma gli annuali tributi di guerra, rianimando in tal modo il loro partito e in pari tempo rendendo la madre patria sempre più soggetta alla loro generosità.


Asdrubale il bello

IV – In questo torno di tempo altri e più pressanti pericoli incombevano su Roma. I Galli Cisalpini durante la I guerra punica, memori delle recenti cruente sconfitte che avevamo inflitte loro erano rimasti in pace.
Del resto la guerra si era combattuta in Sicilia o nel mare Siculo, ben lontano dai loro territori. Ma ormai già due generazioni erano passate dal tempo delle antiche sconfitte e i giovani Galli volevano la guerra.

Dei Galli Cisalpini le popolazioni più numerose e potenti sono costituite dagli Insubri, la cui principale città è Mediolanum, dai Boi, che occupano Bononia e le terre confinanti e dai Senoni il cui territorio si spinge sino al Mare Adriatico ed hanno quale centro principale Sena (Senigallia). A questi si devono aggiungere, fieramente avversi agli Insubri, i Cenomani, le cui terre si estendono da Brixia (Brescia) fino ai confini con i Veneti, ai quali ci lega la comune origine (secondo il mito di Antenore che, esule da Troia come Enea, costituì lo stato dei Veneti).

Per quanto detto stringemmo alleanza con i Veneti e i Cenomani, per arginare gli avversi Galli.

Intanto (231) il tribuno della plebe Gaio Flaminio Nepote, Homo Novus, per quanto avversato dal Senato, procedette alla distribuzione ai piccoli agricoltori dell'Ager Publicus, confiscato ai Senoni (attorno al 290), perciò detto anche Ager Gallicus.


Gaio Flaminio Nepote

L'Ager Publicus era proprietà della Repubblica Romana e avrebbe dovuto rimanere a disposizione dello stato per crearvi colonie o piccole proprietà contadine, non per niente si chiama Ager Publicus Populi Romani.

Ma l'insaziabile avidità dei nobili li aveva indotti a darlo in gestione a privati che impunemente lo affittavano a piacer loro.

Il partito dei nobili sostenne poi che l'insurrezione dei Galli fosse stata causata dalla distribuzione delle terre effettuata da Flaminio. Accusa ridicola, quasi che i Galli fossero amici dei nobili e preferissero che le terre confiscate fossero da questi amministrate.

V – Mentre le tribù della Gallia Cisalpina si preparavano alla guerra, Roma affrontò la questione della pirateria che affliggeva il Mare Adriatico.

Gli Illiri erano usi praticare la pirateria ed in quel tempo, non essendo contrastati, si fecero sempre più arditi, fino ad attaccare e depredare le città ed i mercanti Italici. Roma non poteva sopportare che i suoi alleati fossero impunemente aggrediti e mandò dunque una ambasceria a Teuta, regina degli Illiri.


Teuta

Costei o mal consigliata o sprovveduta, alle lamentele dei nostri ambasciatori rispose arrogantemente che non poteva impedire ai propri sudditi di praticare la pirateria.
Il più giovane dei nostri ambasciatori presa la parola ribatté: "Ti insegneremo noi, o regina, come si fanno rispettare le leggi".

Partiti gli ambasciatori, Teuta ordinò che fossero inseguiti. Due degli ambasciatori Romani furono uccisi dai sicari di Teuta.

Lo sdegno a Roma fu tale che il giorno stesso che giunse la notizia dell'assassinio degli ambasciatori fu dichiarata la guerra (230). L'esercito Romano avanzò per terra e per mare (229), stringendo gli Illiri in una morsa.

Demetrio di Faro che comandava la loro flotta defezionò e passò ai Romani. Come premio del suo tradimento a Demetrio fu concesso il comando di ampi territori. Più tardi dovemmo pentirci di questa incauta decisione.


Demetrio di Faro

Al momento la I guerra Illirica si concluse rapidamente con nostra soddisfazione. Teuta dovette accettare tutte le condizioni che le imponemmo.

VI – Ma il Fato volle che non potessimo vivere in pace. Avevamo appena conclusa la I guerra Illirica quando i Galli Cisalpini cominciarono ad organizzare la guerra contro Roma. Per prima cosa gli Insubri si rivolsero ai Gesati, una popolazione di Galli che provenendo dalle valli superiori del fiume Rodano, avevano occupati entrambi i versanti delle Alpi, abituandosi a combattere come mercenari.

Allettati con ricchi doni i loro re, Concolitano e Anoresto, li accolsero a Mediolanum e dopo aver mostrato la fertile pianura Padana, dichiararono che ricchezze di gran lunga superiori si trovavano lungo la strada per Roma e ancor di più nella stessa Roma, che i soli Senoni in passato avevano occupato per sette mesi.


Concolitano

Gli Insubri, d'accordo con i Boi, concordarono con i Gesati le condizioni per la loro partecipazione alla guerra.

Anticiparono parte dei premi richiesti: il rimanente sarebbe stato saldato a vittoria conseguita.

I Gesati si impegnarono a fornire quarantamila guerrieri. Complessivamente stimammo che tra Gesati, Insubri, Boi, Senoni e altre tribù minori, i Galli potessero contare fino a centomila fanti e diecimila cavalieri.
I primi a dare l'allarme furono gli Etruschi terrorizzati dal timore delle devastazioni che una tale massa di barbari avrebbe provocato.
Immediatamente il Senato ordinò la mobilitazione.

Per prima cosa fu ordinato il censimento di tutti gli uomini atti alle armi, tra Romani ed Alleati (Latini, Etruschi, Campani, Sanniti, Iapigi, Messapi, Lucani, Marsi, Marrucini, Vestini), compresi i Cenomani e i Veneti, il numero dei fanti superava i settecentomila, i cavalieri erano di poco inferiori a settantamila.

VII – I Galli, attraversato l'Appennino (nel 225), invasero l'Etruria. Presso Fiesole sconfissero un presidio Romano. Poiché il contingente degli Etruschi faceva parte dell'esercito del console Lucio Emilio Papo, alle popolazioni fu dato l'ordine di abbandonare le campagne e riparare nelle città fortificate.


Lucio Emilio Papo

Accadde così che i barbari senza combattere fecero un grande bottino, costituito soprattutto da ogni tipo di animali.

Intanto l'altro console Gaio Atilio Regolo, che si era recato in Sardegna per prevenire disordini, fu richiamato in Italia.


Gaio Atilio Regolo

I Galli si trovavano al centro dell'Etruria quando Anoresto, che assieme a Concolitano li comandava, visto che le mandrie di animali catturati rendevano difficoltosa l'avanzata dell'esercito, decise di tornare nella Gallia Cisalpina, dove diceva avrebbero messo al sicuro il bottino, per tornare nuovamente e attaccare direttamente Roma.

Non sappiamo quale fosse la sua reale intenzione, mentre è comprensibile che per tornare in Gallia scegliesse di percorrere la comoda via che segue il Tirreno, evitando di riattraversare gli Appennini con tutte le mandrie che i barbari si trascinavano appresso.

Anoresto, seguito da Lucio Emilio, guidò dunque i Galli verso Talamone, piccolo porto sul mare Tirreno.

Poiché avevano percorso l'Etruria senza incontrare resistenza, Anoresto si diresse incautamente verso il mare.

Fu quindi totalmente sorpreso quando seppe che il console Gaio Atilio Regolo, proveniente dalla Sardegna, era sbarcato e occupate le migliori posizioni lo attendeva a Talamone, mentre l'altro console era alle sue spalle.

Vistosi intrappolato, Anoresto decise di dare battaglia contando sul numero e il valore dei suoi, pur costretti a combattere su due fronti.

I Barbari occupavano tutta la piana che, circondata da modeste colline, si stende verso il mare, dal quale la separano le alture sulle quali sorge Talamone.

I due consoli avevano fatto avanzare le proprie legioni per invitare il nemico al combattimento.

Anoresto comandava la linea che si opponeva a Atilio, Concolitano l'altra. Entrambi diedero simultaneamente l'ordine di attacco.
I Galli con tremendo strepito, battendo le armi sugli scudi, lanciarono il grido di guerra.

I Gesati più degli altri Galli hanno corporature imponenti ed imponenti stature, essi dicono che ciò è il frutto delle caccie con le quali si procurano gli animali che vivono nei monti. Invero essi accompagnano le carni bevendo incredibili quantità di cervesia (birra) bevanda, da noi poco gradita, che si ottiene facendo fermentare l'orzo ed aggiungendo miele.

Tutti i Galli sono molto fieri della loro prestanza fisica che in battaglia li rende pericolosissimi al primo scontro quando sono nel pieno vigore delle forze. Peraltro non sono resistenti alla fatica e se la battaglia procede per qualche ora, vinti dalla stanchezza, appena possono si ritirano.

Pertanto i consoli avevano dato l'ordine di protrarre il combattimento il più a lungo possibile. A tal fine al primo attacco dei barbari i legionari dovevano arretrare ordinatamente, lasciando in prima fila i veliti che lanciando i giavellotti dovevano scompaginare le fila nemiche provocandone la disordinata reazione.

Così arretrando passo dopo passo, grazie ai veliti ed agli arcieri, il combattimento si svolse secondo la nostra volontà, fino a quando i centurioni dei triari (i veterani) assicurarono i consoli che il nemico stava visibilmente accusando la fatica. Allora i consoli ordinarono la controffensiva.

Gaio Atilio Regolo, mentre valorosamente combatteva in prima linea, perì.

I nostri cavalieri volendo vendicare la morte del console attaccarono furiosamente i barbari. Costoro non seppero resistere alla nostra carica e voltisi in fuga aprirono la strada all'avanzata dei legionari.

Ci fu un grande massacro. Catturammo oltre diecimila prigionieri, innumerevoli furono i morti e i feriti.

Concolitano fu catturato, Anoresto fuggito su una collina con pochi dei suoi, si suicidò.


Anoresto

VIII – Mentre Roma si preparava allo scontro con i Galli i suoi alleati Massalioti (Marsigliesi), preoccupati per l’espansione di Asdrubale Maior in Spagna, per arginare una sua ipotetica avanzata chiesero il nostro intervento: temevano infatti che Asdrubale si potesse alleare con i Liguri, stringendo Massalia in una morsa.

Veri o falsi che fossero tali timori i Romani si accordarono con Asdrubale e firmarono il patto detto dell’Ebro, secondo il quale i Cartaginesi si impegnavano a non attraversare in armi il fiume, divenuto pertanto il confine settentrionale del regno dei Barca che in tal modo controllavano gran parte della Spagna, con piena soddisfazione di Asdrubale.

Il patto dell’Ebro si basava sulla volontà dei contraenti di mantenere relazioni pacifiche, tanto da garantire la sicurezza delle città alleate dell’uno o dell'altro, che si trovassero a meridione o a settentrione dell’Ebro.
Confortava i Romani il comportamento di Asdrubale Maior che aveva esteso i possedimenti di Amilcare soprattutto grazie alla sua moderazione; del resto Asdrubale, come peraltro Amilcare, avendo combattuto nella I guerra punica ben sapeva di quale incrollabile determinazione fosse capace Roma e certamente non andava in cerca di nuovi conflitti.

Grazie al loro coraggio e abilità i Barca erano riusciti a creare un proprio regno, nel quale Asdrubale fondò la magnifica città di Cartagena (Cartagine Nuova) e dal loro regno esercitavano una fortissima influenza sulla stessa Cartagine.

Perché mai due uomini come loro saggi ed esperti avrebbero dovuto rischiare tutte le loro conquiste?

Nota dell’editore:
Fu Polibio lo storico greco, che nell’antichità divenne la fonte principale riguardo alle guerre puniche, a favoleggiare che in un colloquio riservato (ma se fu riservato che ne sapeva Polibio?) con Antioco re di Siria, Annibale disse che quando aveva nove anni il padre Amilcare gli fece giurare eterno odio verso i romani.
Gli storici antichi erano soliti abbellire con queste “poetiche” invenzioni le loro narrazioni. Peraltro la favola si è consolidata fino ai giorni nostri, seppure, come la nostra fonte abbia ricordato, il fiero risentimento di Amilcare fosse rivolto contro il partito cartaginese a lui avverso.

IX – In Gallia Cisalpina dopo la sconfitta di Talamone, quelli dei Gesati che erano scampati alla strage tornarono nelle loro valli, ma i Taurini, gli Insubri e i Boi non accettarono la sconfitta.

Eletto console (224) Gaio Flaminio Nepote decise di risolvere la questione gallica.
I patrizi tentarono di trattenerlo a Roma con ogni mezzo, tra l’altro gli auguri affermarono che i sacri polli rifiutavano il cibo, annunciando presagi sfavorevoli.

Ma Flaminio lasciò gli auguri con i loro polli e partì per la Gallia Cisalpina.
Sconfitti definitivamente i barbari, creò la provincia della Gallia Cisalpina. Successivamente a guardia del Po e per mantenere un saldo controllo sui Galli, istituì le colonie di Placentia e Cremona.

Nominato censore (220) con Lucio Emilio Papo, Flaminio costruì la grande strada che collega Roma ad Ariminum (da qui qualche anno dopo fu tracciata la via Emilia che partendo da Ariminum arrivava a Placentia).

X – Mentre in Spagna, sotto l’accorto comando di Asdrubale Maior, le cose procedevano pacificamente, tanto che nessuno degli alleati ricorse alla nostra mediazione, lo stesso Asdrubale fu assassinato in circostanze oscure (221).

I legionari Cartaginesi elessero al suo posto Annibale, figlio primogenito di Amilcare Barca, che aveva allora venticinque anni e molte benemerenze era riuscito a conquistarsi presso le truppe. 
Il senato Cartaginese non poté che ratificare la decisione presa.

Quando terminò la prima guerra punica (241) Annibale aveva cinque anni, quindi a differenza del padre Amilcare e di Asdrubale Maior non aveva sperimentato la potenza di Roma e quella indomita capacità di sacrificio che ci fa invincibili.

Pertanto, non più tenuta a freno la sua fatale ambizione, concepì il disegno più temerario: sconfiggere Roma.
Invero mai si vide nell’animo di uno stesso uomo convivere contrasti più grandi, massima audacia nel pericolo ed altrettanta prudenza, ineguagliata resistenza alla fatica, inconsueta continenza. Ma a grandi virtù corrispondevano non meno grandi vizi, feroce crudeltà, totale inaffidabilità, menzogna continua, mancanza di ogni scrupolo.

I suoi primi atti fecero subito comprendere che gli anni dell’accorto comando di Asdrubale Maior erano per sempre tramontati. Asdrubale aveva condotto verso le tribù Ispaniche una politica basata più sulle alleanze che sul dominio, come del resto aveva fatto Roma in Sicilia con Gerone di Siracusa e tanti altri. Annibale invece, per i suoi disegni, voleva il dominio incontrastato.

In Spagna si aprì dunque una stagione di guerre, con due sole alternative o la resa o il massacro.
Tutto il territorio a sud dell’Ebro doveva essere sotto il completo dominio dei Barca.

Fu chiaro che si avvicinava la tempesta.

XI – In questo torno di tempo Demetrio di Faro, avendo sposato la prima moglie del defunto re dell’Illiria, Agrone, era divenuto il tutore del suo giovane figlio Pinnes, mentre Teuta, quale ultima moglie di Agrone, aveva retto lo stato in nome di Pinnes.

Dopo la disfatta subita nella I guerra illirica Teuta si era ritirata all’interno dello stato, perdendo di fatto ogni potere.

Vedendo i Romani impegnati contro i Galli Cisalpini ed allo stesso tempo insidiati da Annibale, Demetrio si risolse al tradimento alleandosi con Antigono Dosone, che in quel tempo reggeva il regno di Macedonia per conto del giovane Filippo V.


Antigono Dosone

Demetrio dunque fidando nella protezione del potente stato Macedone ricominciò con la pirateria, attaccando le città costiere del mare Adriatico alle quali Roma aveva assicurato la propria protezione.

Ma Demetrio aveva fatto male i suoi conti, infatti i Romani considerarono che se non avessero reagito prontamente avrebbero incoraggiato i Macedoni ad agire contro Roma, nascondendosi dietro gli Illiri loro alleati.
Poiché a causa di Annibale il tempo stringeva il Senato decise di inviare contro Demetrio (219) entrambi i consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Livio Salinatore.

Lucio Emilio Paolo Marco Livio Salinatore

La guerra fu brevissima l’esercito di Demetrio fu annientato, tutti i territori che aveva occupato furono riconquistati, Demetrio stesso fuggì in Macedonia presso Filippo V, che nel frattempo era succeduto ad Antigono Dosone ed alla corte del re Macedone finì la miserevole vita di un uomo votato al tradimento.

 

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