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LIBRO I - DALLA CADUTA DI SAGUNTO ALLA BATTAGLIA DEL TRASIMENO

I – Per dare seguito ai suoi piani Annibale iniziò con l'assoggettamento della Spagna a meridione dell'Ebro, quella che noi chiamiamo Spagna Ulteriore.


Annibale

Per primi assalì gli Olcadi, poi i Vaccei, costoro unitasi ai Carpetani con gli esuli degli Olcadi attaccarono i Cartaginesi.

Annibale, evitata la battaglia in campo aperto, contrattaccò in condizioni a lui favorevoli e forte di quaranta elefanti sconfisse i nemici.

In breve tutta la Spagna Ulteriore eccetto Sagunto cadde sotto il giogo dei Punici.

Il Cartaginese per provocare la reazione Romana, incitò i Turdetani a fare incursioni nel territorio dei Saguntini, loro vicini, dai quali li dividono lunghi anni di discordie.

Quando i Saguntini, nostri alleati ricorsero a Roma, con sommo disprezzo della verità, Annibale li accusò di aver molestato i Turdetani, suoi alleati.
I consoli Publio Cornelio Scipione e Tiberio Sempronio Longo riferirono al Senato quale situazione si fosse determinata.

I senatori decisero di inviare ambasciatori in Spagna per verificare lo stato delle cose.
Annibale, volendo provocare la guerra, fece precipitare gli eventi.
Gli ambasciatori non avevano ancora lasciato Roma e già Annibale attaccava Sagunto (Marzo 219 a.C.).

Così essendosi evoluti gli avvenimenti fu riconvocato il Senato, qui secondo alcuni si doveva assegnare ad un console la Spagna, all'altro l'Africa, conducendo la guerra per terra e per mare, secondo altri si doveva combattere solo in Spagna contro Annibale.

Prevalse un terzo partito che sosteneva non doversi affrontare imprese così grandi prima del ritorno degli ambasciatori dalla Spagna.
Questa opinione era sostenuta anche da Gaio Flaminio Nepote a nome della plebe e da Quinto Fabio Massimo Verrucoso, per i patrizi.
Se poi gli ambasciatori non fossero riusciti a fermare Annibale, dovevano andare a Cartagine.

Ma i nostri ambasciatori non riuscirono a conferire con Annibale, perché questi, mandata incontro una nave, affermò che non poteva garantire la loro sicurezza nel pieno di una così furiosa battaglia.

 

II – Secondo le istruzioni ricevute dal Senato, gli ambasciatori Romani veleggiarono allora verso Cartagine.

Prima che l’ambasceria Romana arrivasse, nel senato Cartaginese prese la parola Annone dicendo: “So che la mia inimicizia verso Amilcare, padre di questo giovane ambizioso e sfrenato, renderà le mie parole sgradite a molti, eppure vi dico che l’unica nostra speranza di salvezza è quella di consegnare Annibale ai Romani per evitare una guerra catastrofica”.


Annone

Le sue parole caddero nel generale silenzio.

L’ambasceria Romana non era stata ancora ricevuta dal senato Cartaginese, quando, dopo otto mesi di eroica resistenza, Sagunto fu espugnata (Novembre 219) dalle soverchianti forze di Annibale.
Prima che la città cadesse in mano nemica i Saguntini, consapevoli del destino che li attendeva, fusero i propri ori con altri metalli, per impedire ai Cartaginesi di godere delle loro ricchezze.

La presa di Sagunto, mentre apriva la strada alla guerra, d'altro canto, come fu chiaro in tempi successivi, mostrava che l’esercito di Annibale, fortissimo in campo aperto, non era altrettanto valido nell’assalto di città difese da forti mura, tanto che i Saguntini, pur ridotti a poche migliaia di uomini, resistettero per mesi ai ripetuti assalti delle decine e decine di migliaia di soldati di Annibale.

Ricevuti infine nel senato Cartaginese, gli ambasciatori Romani chiesero se Annibale avesse attaccato Sagunto per pubblica deliberazione.

I sostenitori dei Barca elusa la domanda dei Romani, iniziarono a disquisire sul trattato dell’Ebro, sostenendo il diritto di Annibale ad attaccare Sagunto, colpevole di aver provocato le popolazioni loro alleate.

Allora il più anziano degli ambasciatori Romani, l’insigne Marco Fabio Buteone, presa la parola disse:
“Non è più il tempo di discutere di trattati, Sagunto è stata distrutta, dei nostri alleati è stata fatta strage, nuovamente vi chiedo se Annibale ha agito autonomamente o per pubblica deliberazione”.


Buteone

Nel senato, mentre Annone abbandonava l’aula, si alzò un grande strepito.
Allora Marco Fabio aperta la piega della toga disse:
“Ho qui due cosa da darvi, la pace o la guerra”.
Esaltati i senatori Cartaginesi risposero che desse loro ciò che voleva.

Il Romano, levatosi in piedi, solennemente proclamò:
“Vi dò la guerra”.

 

III - Annibale, distrutta Sagunto, tornò a Cartagena, portando con sé in condizione di schiavitù i Saguntini superstiti.
E intanto preparava la guerra contro Roma.

Poiché doveva assicurarsi che, una volta partito con l'esercito, le tribù Spagnole non si ribellassero, delegò al fratello Asdrubale il comando dei mercenari, in gran parte fatti venire dall’Africa, che dovevano tenere a bada le popolazioni più bellicose.

L’esercito che lui stesso avrebbe guidato era formato da circa quarantamila uomini, tra i quali, comandati da Maarbale si trovavano oltre ottomila cavalieri, in maggior parte Numidi.


Maarbale

La fanteria era composta da Spagnoli e Africani, mentre i Cartaginesi occupavano le posizioni di comando.
Per non trovarsi privo di rifornimenti lungo l'avanzata verso la Gallia Cisalpina, Annibale aveva ordinato che l’esercito fosse seguito da numerosissimi carri e bestie da soma.
Infine per intimorire i nemici decise di condurre con se quaranta elefanti.

Quando tutto fu pronto e la stagione propizia ai primi di Aprile (218) lasciò Cartagena e marciò verso l’Ebro.
Da qui proseguì verso i Pirenei, stando alla larga da Emporiae, senza incontrare eccessive resistenze, ma superati i confini della Spagna, i mercenari Spagnoli, che nulla sapevano delle intenzioni di Annibale, si chiedevano dove li volesse condurre.

Costui prima cercò di rassicurali con la promessa di un grande bottino, ma intanto teneva segreta la sua meta.
D’altra parte metà della sua fanteria era Spagnola, quindi Annibale fu costretto a fermarsi poco oltre i Pirenei, cercando di convincere gli Iberici a non abbandonarlo.

Mentre il tempo passava la fortuna venne in soccorso del Cartaginese, infatti una delegazione di capi Insubri e Boi arrivarono per conferire con lui.
Costoro dichiararono che se Annibale fosse arrivato nella Gallia Cisalpina avrebbe trovato centomila Galli, con una forte cavalleria, pronti a sostenerlo, pronti a combattere contro Roma, pronti a marciare su Roma. 

Annibale aveva portato con se grandi ricchezze, grazie alle quali con ricchi doni si assicurò il favore dei Galli, promettendo loro di dividere equamente il bottino, che con le loro vittorie si sarebbero assicurati.
Il Cartaginese ben sapeva come la recente guerra che aveva contrapposto Roma ai Taurini, agli Insubri ed ai Boi, non aveva fiaccato l’animo bellicoso dei Galli, reso ancor più furioso per le sconfitte subite.
Gli stessi Galli erano fiduciosi che alleandosi con Annibale avrebbero finalmente piegato Roma.

 

IV – I Romani intanto, mentre ardevano di sdegno contro i Cartaginesi, tardavano a prendere le necessarie decisioni.
Accadde così che mentre si pensava di combattere Annibale in Spagna, questi aveva varcato i Pirenei.

Prima di giudicare severamente questa nostra inerzia appare opportuno considerare che dalla fine della prima guerra Punica (241) fummo costantemente chiamati alle armi.

Dapprima la ribellione dei Falischi, repressa in breve tempo, poco dopo l’insurrezione della Sardegna e della Corsica, conseguente alla cacciata dei Cartaginesi, mentre in Illiria infuriava la pirateria.

Vista la debolezza dei Cartaginesi, fiaccati dalla I guerra Punica e dalla guerra Libica, non potevamo tollerare che le due isole, cadessero in mano di popolazioni che con ogni probabilità si sarebbero date alla pirateria, mettendo a repentaglio il commercio delle citta nostre alleate come Massalia (Marsiglia) ed Emporiae (oggi Empurias, in Catalogna), oltre a quelle dell'Etruria.

Roma conquistò la Corsica solo dopo due anni di guerre (nel 237), mentre l'assoggettamento della Sardegna richiese un grande dispendio di forze per le continue ribellioni delle tribù locali.
Tra l’altro si venne a creare un insanabile dissidio con i Cartaginesi che, pur essendo stati scacciati dalle isole, si sentirono da noi defraudati.

Pochi anni dopo la pirateria degli Illiri nel mare Adriatico divenne così impunita che le stesse città alleate di Roma ne furono vittime. Ma impunità non doveva restare, pertanto non ci potemmo esimere dal combattere la prima guerra Illirica (231).
Venuti a capo degli Illiri fu la volta dei Galli Cisalpini che, con l’eccezione dei Cenomani, scesero in guerra con un esercito sterminato, furono sconfitti in Etruria a Talamone e definitivamente a Mediolanum da Gaio Flaminio Nepote (224).

Approfittando delle presunte difficoltà dei Romani, Demetrio di Faro, ripresa la pirateria provocò, la seconda guerra Illirica (221), che i consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Livio Salinatore condussero a termine con la definitiva sconfitta degli Illiri.

Appare dunque comprensibile che volessimo evitare una nuova guerra, di tutte la peggiore che potessimo desiderare, mentre le campagne abbandonate dai giovani, chiamati alle armi da tante guerre, divenivano sempre più improduttive. 

 

V – Tornando ad Annibale la sua avanzata procedeva più lentamente di quanto avrebbe desiderato: infatti, come detto, attraversato l’Ebro si diresse verso i Pirenei e per non ritardare la marcia evitò Emporiae che, difesa da possenti mura, avrebbe potuto resistere all’assedio per lungo tempo, consentendoci di soccorrerla via mare. Ma anche per superare i Pirenei dovette negoziare con le popolazioni locali le condizioni per attraversarne i territori, senza dover logorare le proprie forze con indesiderati conflitti.

E il tempo passava.

Intanto i Massalioti (marsigliesi), mentre informarono i Romani che Annibale aveva varcato l’Ebro,  temendo che il Cartaginese, come aveva espugnato Sagunto, volesse assalire la loro città, invocarono il nostro aiuto.  

Il timore dei Massalioti era ben fondato, infatti se Massalia fosse caduta in mano nemica Annibale avrebbe conquistato una base navale formidabile, dalla quale avrebbe controllato le rotte da e verso la Spagna, minacciato i porti dell’Etruria ed infine si sarebbe assicurato tutti i rifornimenti necessari senza dovere percorrere lo stesso logorante cammino via terra, nel quale era al momento impegnato.

 

VI – Colto di sorpresa il Senato Romano dovette cambiare tutti i piani di guerra.
Ai nuovi consoli Publio Cornelio Scipione (padre dell’Africano) era stata assegnata la Spagna, dove si pensava di fermare Annibale. A Tiberio Sempronio Longo, l’Africa, con il compito di portare la guerra sotto le mura di Cartagine. 

Scipione padre Longo

Come dirò di seguito, Tiberio Sempronio che era già partito dalla Sicilia verso Cartagine, fu richiamato in patria, mentre Publio Cornelio fu inviato in soccorso dei Massalioti.

Imbarcatosi in Etruria il console sbarcò a Massalia con due legioni e circa cinquemila ausiliari. Da Massalia proseguì verso le foci del fiume Rodano, dove in posizione vantaggiosa pose il campo attendendo Annibale.
Ma visto che del Cartaginese non c’erano tracce fece riposare le truppe.

Fatale fu questo ritardo, infatti, Annibale aveva fatto credere di puntare su Massalia, mentre in realtà risaliva il fiume Rodano verso settentrione.

I Volci, una tribù Gallica particolarmente bellicosa che abitava su entrambe le rive del fiume ed era legata ai Massalioti dai comuni interessi assicurati dal commercio, non vennero a patti con i Cartaginesi. 
Portate sulla riva orientale le genti che abitavano sulla riva destra del Rodano, qui attesero in armi i nemici.  

Publio Cornelio, non vedendo apparire i Cartaginesi, mandò in esplorazione trecento cavalieri scelti accompagnati da guide Massaliote.

Frattanto Annibale, per quanto sorpreso dalla resistenza dei Volci, che non aveva piegato neppure con l’offerta di ricchi doni e d’oro dei quali i Galli sono avidissimi, non si perse d’animo.

Fatte costruire un grandissimo numero di barche per attraversare il fiume e schierato in ordine di battaglia il proprio esercito, sperava di intimorire i nemici, ma costoro, allineati sull'altra riva del fiume, con grande strepito d'armi mostrarono che non si sarebbero sottratti alla battaglia.

Il Cartaginese fu allora costretto a ricorrere ad un nuovo stratagemma.
Informato dalle sue guide che più a settentrione il Rodano presentava un agevole guado, nel cuore della notte inviò Annone figlio di Bomilcare (uno dei più insigni personaggi di Cartagine) con un gran numero di cavalieri verso questo guado che distava dal suo campo venticinque miglia (circa 37 km).

Annone, dopo aver fatto riposare i cavalieri, attraversò il fiume e iniziò a scendere verso meridione per prendere alle spalle i Volci.


Annone

 

VII – Intanto la cavalleria scelta Romana, guidata dai Massalioti, risalendo il Rodano si scontrò con cinquecento cavalieri Cartaginesi.

La battaglia fu violentissima e pressoché pari le perdite, ma furono i nemici a ritirarsi.
Orgogliosi per la vittoria i nostri tornarono da Pubblio Cornelio annunciandogli che Annibale stava risalendo il Rodano puntando verso settentrione.

Come sopra detto i ritardi accumulati ci furono fatali, infatti se il console, grazie alla mediazione dei Massalioti si fosse schierato a fianco dei Volci, l’avanzata di Annibale verso Roma sarebbe terminata sul Rodano.
Ma così non volle il Fato che domina la vita degli uomini.

I Volci, come tutti i Galli sono valorosi combattenti, ma nella loro indolenza disdegnano la disciplina, che presiede all’arte della guerra.

Quindi non si curarono di vigilare sulle mosse del nemico e quando Annone li attaccò da settentrione con la sua formidabile cavalleria Numidica, furono colti di sorpresa, mentre Annibale approfittando del loro disorientamento iniziò ad attraversare il fiume.

I Galli, come spesso abbiamo verificato, nelle prime ore del combattimento si battono con incredibile vigore, ma con il passare delle ore le forze vengono loro meno.
Accadde così anche in questo frangente.

Vistisi perduti i Volci si dispersero nei loro territori e Annibale restò padrone del campo, anche se aveva dovuto pagare ai nemici un pesante tributo di sangue.

Quando la battaglia fu terminata i Cartaginesi traghettarono anche i loro elefanti, impresa non facile perché le belve prese dal panico, causato dalle acque del fiume, solo a gran fatica furono condotte sull’altra riva.

 

VIII – Publio Cornelio, compreso che l’obiettivo di Annibale non era Massalia, ma che intendeva attraversare le Alpi per invadere la Gallia Cisalpina, prese una decisione ad un tempo coraggiosa e previdente.
Per impedire che il nemico fosse rifornito dalla Spagna, affidò buona parte del suo esercito al fratello Gneo Cornelio Scipione Calvo.

Questi, imbarcatosi a Massalia sbarcò ad Emporiae (nel nord della Catalogna), nostra fedele alleata che lo accolse con grandi onori ed anche con sollievo visto che la caduta di Sagunto, storica alleata dei Romani, aveva causato tra i nostri alleati un forte risentimento contro Roma che non era intervenuta in sua difesa.


Scipione Calvo

Quindi l’arrivo di Gneo Cornelio, nei frangenti cha abbiamo sopra descritto, fu accolto quale prova che i Romani non avrebbero abbandonato la Spagna Citeriore (dal punto di visita romano, al di qua dell’Ebro).

Gneo Cornelio oltre ad essere un grande condottiero, fu un uomo di ineguagliata pietà, grazie a queste sue virtù riconciliò con i Romani i popoli a settentrione dell’Ebro, come detto, indignati contro di noi che avevamo abbandonato i Saguntini.

Per difendere la Spagna Citeriore (la Catalogna), circa centosettanta miglia (250 Km) a meridione di Emporiae, edificò la città di Tarraco (Tarragona), base navale fondamentale per i Romani, che protesse con mura inespugnabili.

Mentre a mezza strada tra Emporiae e Tarraco, costruì il grande castra di Barcino (Barcellona).


Barcino

Frattanto Publio Cornelio, avvertito che Annibale, passato il Rodano, marciava verso le Alpi per scendere nella Gallia Cisalpina, imbarcatosi a Massalia rientrava in Italia, dove approdò a Pisae (Pisa).

 

IX – Per avere libero il campo, il Cartaginese indusse gli Insubri ed i Boi ad attaccare la colonia Romana di Placentia i cui abitanti, in gran parte veterani, difesi da munitissime mura, respinsero bravamente i barbari.

Di lì a poco sopraggiunse con una legione il pretore Romano Lucio Manlio Vulsone che incautamente attaccò i Galli: fu a sua volta respinto, lasciando sul terreno non poche vittime.

I Taurini (abitavano i territori subalpini, compresa Torino), temendo che l’esercito Cartaginese avrebbe devastato le loro terre, ruppero l’alleanza con gli Insubri, mentre i Cenomani, nostri alleati, chiamavano i giovani alle armi, pronti a concentrarsi a Brixia (Brescia).

Gli Insubri allora chiesero aiuto ai Gesati, ma costoro memori della recente sconfitta, nella quale avevano perduto entrambi i loro re, rifiutarono di scendere nuovamente dalle Alpi, tra l’altro senza sapere chi avrebbero dovuto servire, gli Insubri, o i Cartaginesi?

In tali frangenti il Senato Romano ordinò al console Tiberio Sempronio di non sbarcare in Africa, ma tornato in Italia, di unire le sue forze a quelle di Publio Cornelio.

Peraltro, sulla via del ritorno, Tiberio Sempronio aveva espugnato l’importante base navale Cartaginese di Malta, lasciandovi un forte presidio.  

 

X – Annibale, messi in fuga i Volci, fatto riposare l’esercito e curare i feriti, riprese la marcia verso le Alpi ma non poté seguire la via più comoda poiché i passi più agevoli da superare erano presidiati dai bellicosi Gesati.

Costoro temevano che Annibale volesse occupare le loro montagne, pertanto a nessun costo vollero consentire la sua avanzata.
Per valicare le vette delle Alpi i Cartaginesi dovettero combattere passo dopo passo, inoltre poiché la stagione estiva era terminata, l'esercito fu investito da tormente di neve, a causa delle quali scendendo dai monti caddero nei burroni un gran numero di bestie da soma, con i viveri che trasportavano ed anche dieci elefanti andarono perduti.

Quando infine raggiunsero le valli subalpine trovarono schierati in ordine di battaglia i Taurini.
Invano Annibale cercò di negoziare le condizioni per il passaggio del suo esercito nel loro territorio, la parola fu lasciata alle armi.

Respinti dai Cartaginesi i Taurini si rifugiarono nella loro maggiore città Taurasia (Torino).
I Taurini sono una popolazione Gallo-Ligure, le loro maggiori città sono invero dei grandi villaggi, la cui difesa è affidata a modesti steccati.

Nonostante la strenua resistenza, in meno di una settimana Taurasia fu espugnata e qui Annibale mostrò la sua natura crudele, la popolazione fu massacrata, probabilmente per intimorire le altre avverse tribù.
Il risultato che ottenne fu ambiguo, i villaggi delle pianure si arresero, mentre le popolazioni che abitavano alle pendici dei monti si ritirarono all’interno.

In compenso la fama della crudeltà dei Cartaginesi si diffuse dalla Gallia all’Etruria.
Intanto i Cenomani concentrarono a Brixia un forte esercito.
Dopo questi ulteriori scontri Annibale dovette far riposare nuovamente l’esercito, che a causa delle battaglie e dell’attraversamento delle Alpi si era ridotto radicalmente di numero.

Prima di passare il Rodano si stimava che Annibale potesse contare su quarantamila fanti ed ottomila cavalieri, mentre a questo punto il numero dei fanti si era dimezzato ed i cavalieri erano scesi a poco più di seimila.

In attesa di ricongiungersi con gli Insubri ed i Boi, il Cartaginese si impegnò a fondo per assoldare i guerrieri Liguri, non solo famosi per i loro valore e la loro resistenza, ma anche perché le tribù orientali sono nostre nemiche, mentre i Genuati (gli abitanti di Genova) e le tribù occidentali sono nostri alleati.

Tuttavia, a causa del povero territorio, i Liguri orientali sono un’esigua popolazione dalla quale al momento Annibale trasse non più di mille uomini.

 

XI – Publio Cornelio, come detto, sbarcato a Pisae con la cavalleria scelta ed un modesto numero di fanti, procedette al massimo della velocità verso Clastidium (Casteggio in prossimità di Pavia), nel pieno del territorio degli Insubri.

Qui fu raggiuto dalle due legioni arruolate dai pretori Manlio e Atilio.
Publio Cornelio intendeva con questa mossa, frapporsi tra gli Insubri e i Boi, per impedire che uniti si aggregassero ai Cartaginesi.

Ebbe successo, ma poco fiducioso nelle qualità dei legionari, in massima parte reclute, si lasciò indurre ad arruolare un corposo numero di cavalieri Galli.

Da Clastidium avanzò verso il fiume Ticino, che scendendo dall’Helvetia (la Svizzera), con le sue acque, ancor più vorticose per le piogge, che nel mese di Settembre gonfiano quei fiumi, costituiva per Annibale un ostacolo difficile da superare.

Giunto sulle rive del Ticino, Scipione costruì un ponte di legno per passare sulla riva destra del fiume, dove intendeva fortificarsi in attesa del nemico.
Ma il nemico era già arrivato.

Quasi senza che i due comandanti lo volessero le avanguardie dei due eserciti si affrontarono. Quella dei Cartaginesi era costituita da parte della cavalleria Numidica comandata da Maarbale, quella dei Romani dalla cavalleria Gallica e dalla guardia pretoriana di Publio Cornelio.

Al primo scontro i Galli disertarono e passarono dalla parte di Annibale.
Il console Romano, ferito, fu portato in salvo dalla sua guardia, nella quale militava il figlio diciottenne (il futuro Africano).

Il ponte di legno fu tagliato, così i Cartaginesi non poterono inseguire i Romani.
Le nostre perdite non furono superiori a poche centinaia di uomini, ma la vittoria di Annibale fu ingigantita, tanto da attirare dalla parte Cartaginese un gran numero di mercenari.

Peraltro la sconfitta fu dal Senato attribuita al caso, se non all’imprudenza del console che aveva affidato la sua stessa vita alla infida cavalleria Gallica.

Molti lutti dovevano colpire Roma perché divenisse chiaro che la forza dei Cartaginesi era rappresentata dalla validissima cavalleria Numidica, comandata da Maarbale, grandissimo condottiero.
D’altro canto la incrollabile fiducia dei consoli Romani nella nostra fanteria, li avrebbe indotti ad accettare imprudentemente molte altre battaglie.

Invero se Publio Cornelio, difeso dal Ticino, avesse atteso pochi giorni lo avrebbe raggiunto l’altro console e ben diverso avrebbe potuto essere l’esito di questo primo scontro.
Ma Pubblio Cornelio era stato violentemente attaccato per non aver impedito ad Annibale di attraversare il Rodano, quindi cercava di riscattarsi di fronte ai propri cittadini.

Infine Annibale in quei giorni compiva trentuno anni e da undici anni, ininterrottamente, aveva speso la propria vita in guerra e come lui la maggior parte dei comandanti Cartaginesi, mentre a Roma i consoli, comandanti degli eserciti, restavano in carica un solo anno.

 

XII – Tiberio Sempronio Longo procedendo al massimo della velocità, parte via mare e parte via terra si unì a Publio Cornelio a Placentia.

Pochi giorni dopo lo raggiunse una delegazione di Galli Cenomani, chiedendo il suo aiuto, poiché Annibale, avendo saputo che erano nostri alleati, devastava il loro territorio. Tali richieste non restarono inascoltate, Tiberio Sempronio senza dilungarsi, presi i Cenomani come guide li seguì con parte della cavalleria e della fanteria.

Colti di sorpresa i Cartaginesi, ne fece strage, mentre i sopravvissuti ripararono nel campo di Annibale.
Il Cartaginese sorpreso come i suoi, non azzardò la battaglia, ma restò all’interno delle proprie fortificazioni.
Forte di questa vittoria il console intendeva arrivare al più presto allo scontro decisivo.

Temeva infatti che Annibale avrebbe portato dalla sua parte un gran numero di Galli, tra i quali i Boi, che grazie alla manovra di Publio Cornelio non erano ancora riusciti ad unirsi agli Insubri e quindi ad Annibale stesso.

Costui peraltro, corrotto il capo della guarnigione Romana di Clastidium, occupò la fortezza nella quale avevamo depositato grandi quantità di viveri, quindi la perdita di Clastidium fu particolarmente dannosa.

La città era abitata da quella parte dei Liguri che è nostra alleata e qui il console Marco Claudio Marcello (nel 222) aveva sconfitto in una grande battaglia gli Insubri che tentavano di occuparla.


Marco Claudio Marcello

Lo stesso console uccise di sua mano Virdumaro re degli Insubri e consacrò le sue armi a Giove. Fu questa l’ultima volta che un console Romano conquistò le spolia opima (così erano dette le armi del re nemico ucciso per mano dello stesso console).

Per dimostrare la propria magnanimità, visto che aveva preso Clastidium senza combattere, Annibale risparmiò la guarnigione Romana, peraltro formata per la maggior parte da Liguri.
I timori di Tiberio Sempronio sembravano avverarsi, infatti caduta Clastidium i Liguri orientali, nostri nemici avevano la via spianata per raggiungere i Cartaginesi.

 

XIII – Per le ragioni sopraddette il console cercava ogni occasione per attaccare Annibale.
Qualcuno sostiene che Publio Cornelio lo abbia invitato alla prudenza, ma tuttora convalescente per la ferita riportata sul Ticino, aveva pochi argomenti da opporre al collega, reduce peraltro dal recente vittorioso scontro con i Cartaginesi.

Per quanto la stagione fosse inoltrata (metà dicembre 218) e il freddo imperversasse, anche Annibale desiderava venire a battaglia: temeva infatti che i Galli, vedendolo imbelle lo potessero abbandonare.

Posto il campo a circa sei miglia (9000 mt) dall’accampamento Romano dal quale lo separava il fiume Trebbia, iniziò a provocarci.
L’esercito Cartaginese poteva contare su circa trentamila uomini tra arcieri e fanti, contro i trentaseimila Romani, ma la nostra cavalleria era costituita da solo quattromila uomini contro i diecimila nemici.

Tiberio Sempronio incurante delle gelide acque del fiume, lo fece attraversare, all’inizio del combattimento la fanteria pesante romana resse gagliardamente il confronto, ma quando la nostra cavalleria, sopraffatta dai Numidi di Maarbale, iniziò la ritirata, lasciando scoperti i suoi fianchi, anche la nostra fanteria dovette ripiegare.

Combattendo furiosamente i nostri legionari si aprirono un varco tra i nemici e in circa diecimila riattraversarono il fiume, mentre i cavalieri superstiti si erano già messi in salvo.

Degli ausiliari i Cenomani e i Liguri fuggirono verso le proprie terre, mentre una parte della fanteria leggera si disperse nelle campagne, tutti gli altri furono uccisi o fatti prigionieri.

Nonostante la grave sconfitta il Senato Romano restava fiducioso, attribuendone la causa alla presunta imperizia del console Tiberio Sempronio, che, essendo di parte plebea, non godeva in Senato di grandi appoggi. Confortava i Romani il valore dimostrato dalla nostra fanteria pesante, che in una situazione di estremo pericolo si era posta in salvo facendo strage dei nemici.

Le truppe superstiti furono condotte nelle colonie di Placentia e Cremona, mentre i Cartaginesi sopraffatti dalla fatica rinunciarono ad attraversare il Trebbia.

 

XIV  - Come ho ricordato, nonostante la sconfitta il Senato restava fiducioso, gloriandosi per il valore dei legionari ed ignorando il fatto, pur palese, che la battaglia era stata vinta dalla cavalleria nemica, formata in gran parte dai Numidi, famosissimi cavalieri, guidata da Maarbale abilissimo comandante.

Infine per Ercole come potevano quattromila cavalieri Romani resistere a diecimila Cartaginesi?

Cullandosi in queste illusioni, sprecando la pausa imposta dai rigori dell’inverno, il Senato non prese i necessari provvedimenti, preparando le future sventure.

Per l’anno successivo (217) furono eletti consoli il plebeo Gaio Flaminio Nepote ed il patrizio Gneo Servilio Gemino, costui fu inviato con le sue legioni ad Ariminum (Rimini) che grazie alla via Flaminia, costruita tre anni prima dall’altro console, consentiva un rapido collegamento con Roma.

A Gaio Flaminio fu affidata la difesa dell’Etruria. 


Gaio Flaminio Nepote

 

XV – Mentre queste cose accadevano in Italia, Gneo Cornelio Scipione Calvo sbarcato ad Emporiae (settembre 218), come detto riconciliò con i Romani tutte le popolazioni del litorale fino all’Ebro.

Le fiere popolazioni delle montuose zone interne, non tollerando la prepotenza dei Cartaginesi, strinsero alleanza con Gneo Cornelio, impegnandosi a fornire valide coorti ausiliarie.

Annone (uno dei tanti cartaginesi con questo nome), lasciato da Annibale a presidiare, con diecimila fanti e mille cavalieri, i territori a settentrione dell’Ebro, temendo di affrontare le superiori forze Romane, attendeva l’arrivo di Indibile, il più potente capo delle tribù Iberiche stanziate sulle montagne a cavallo dell’Ebro.

Quando Indibile lo raggiunse mosse verso Gneo Cornelio per attaccare battaglia.


Indibile

Il Romano temendo che anche Asdrubale Barca potesse arrivare con il suo esercito, fu ben lieto di accettare la sfida.


Asdrubale Barca

La battaglia si svolse a Cissa, a meridione di Tarraco.

Lo scontro fu breve, i Romani sbaragliarono i nemici, catturando lo stesso Annone e Indibile.
Ricchissimo fu il bottino, poiché negli alloggiamenti dei Cartaginesi presso Cissa, i soldati di Annibale, per non essere impediti nella loro avanzata, avevano lasciato tutti i loro beni più preziosi.

Prima di venire a conoscenza del disastro di Cissa, Asdrubale Barca attraversò l’Ebro, venendo informato dell’accaduto. Mandati in esplorazione alcune ali (un ala era formata all’incirca da 700 cavalieri) di cavalieri, costoro sorpresero gruppi di soldati Romani che vagavano per i campi, diretti verso il mare, quelli che riuscirono a fuggire corsero alle navi e si salvarono.

Asdrubale, non essendo in condizione di affrontare Gneo Cornelio, riattraversò l’Ebro.
Il comandante Romano, lasciata a Tarraco una guarnigione, si imbarcò per Emporiae.

 

XVI – Asdrubale non appena seppe che Gneo Cornelio si era imbarcato, attraversò nuovamente l’Ebro, convincendo alla defezione gli Ilergeti ed allo stesso tempo devastando le terre degli alleati di Roma.

Lasciati i quartieri invernali Gneo Cornelio marciò contro gli Ilergeti, mentre Asdrubale riparava nuovamente a meridione dell’Ebro.

Abbandonati da colui che li aveva spinti alla ribellione, gli Ilergeti si rifugiarono tutti nella città di Atenagro, che cinta d’assedio dopo pochi giorni si arrese, consegnando ai Romani ostaggi e pagando un tributo.
Un prezzo ben maggiore toccò ai Lacetani, alleati dei Cartaginesi, che scontratisi con i Romani, persero undicimila uomini.

Il loro capo Amusico fuggì presso Asdrubale.
Pattuito un tributo di venti talenti d’argento (circa 450 kg), i Lacetani capitolarono.

Quanto accaduto insegnò a Gneo Cornelio di non fare troppo affidamento sulla fedeltà delle volubili tribù Spagnole.
Pertanto stabilì i nuovi quartieri invernali parte a Tarraco, molto più a meridione di Emporiae e parte a Barcino.
In tal modo con le due basi poteva controllare il litorale a settentrione dell’Ebro e le relative popolazioni.

Tarraco, per essere delle due basi quella più meridionale, doveva essere più fortemente difesa.
I legionari non trascorsero l’inverno in ozio, ma secondo la volontà del loro comandante, eressero a difesa della città munitissime mura ed ampliarono il porto.

Le basi navali costruite, o rafforzate da Gneo Cornelio, come vedremo, ebbero nel corso della guerra Annibalica una importanza strategica fondamentale, perché impedirono ai Cartaginesi di inviare ad Annibale dalla Spagna rifornimenti via mare.    

Si chiudeva con le vittorie di Gneo Cornelio Scipione Calvo un anno (218) per Roma altrimenti disastroso, per le non poche occasioni propizie perdute, gli errori compiuti e la grande abilità di Annibale nel volgere ogni circostanza in proprio favore.

 

XVII – Come abbiamo a suo tempo ricordato Gaio Flaminio Nepote era violentemente avversato dal Senato Romano, ma al tempo stesso fortissimamente sostenuto dalla plebe, ciò gli valse il suo secondo consolato (217).

Assunta la carica scrisse al suo predecessore Tiberio Sempronio Longo di concentrare alle Idi (il 15) di Marzo le truppe ad Ariminum, per assumerne il comando.
Il Senato venuto a conoscenza della volontà del console tentò, ricorrendo alle più invereconde superstizioni di impedire a Gaio Flaminio di partire da Roma.

Flaminio fu costretto a lasciare Roma quasi fosse un privato cittadino e raggiunse Ariminum.
Scornati i Senatori deliberarono che il console fosse richiamato.

A tal fine gli inviarono due ambasciatori, ma Flaminio forte del plebiscito popolare, grazie al quale era stato eletto, rimandò a Roma gli ambasciatori, senza degnarli di una risposta.
Flaminio prese dunque in carico le due legioni lasciate da Sempronio e le due dal pretore Gaio Atilio Serrano, in una delle quali militavo anch'io.

Ero allora giovane, infaticabile, impaziente e ambizioso, facevo di tutto per essere notato dal centurione primipilo, il valorosissimo Lucio Licinio Gladio. Questi vista la smania di mettermi in luce mi nominò Aquilifer (portatore dell'Aquila della legione).

Attraversato l’Appennino Gaio Flaminio ci condusse in Etruria, dove prevedeva che sarebbe sceso Annibale. 
Il Cartaginese peraltro era sollecitato dai Galli ad invadere l’Etruria, dove contavano di fare largo bottino e in pari tempo portare la guerra fuori dai loro territori.

Poiché Annibale non poteva contare su aiuti né dalla Spagna, né dall’Africa, visto che avevamo il controllo dei mari e Gneo Cornelio aveva ributtato al di là dell’Ebro i nemici, forzatamente doveva ascoltare i Galli che gli fornivano gli indispensabili mercenari.

Pertanto lasciò i quartieri invernali prima ancora che terminasse l’inverno.

Ai primi di marzo si mise in marcia e per sorprenderci scelse la via più disagevole, ma più breve, quella che attraversando gli Appennini conduce a Pistoria (Pistoia).

 

XVIII – Appena scesi nelle pianure dell’Etruria i mercenari di Annibale ne devastarono il territorio, e non si accontentarono di fare bottino, ma fecero strage di tutti coloro che non erano riusciti a riparare dietro le mura delle città.

Tale essendo la situazione Flaminio procedette a marce forzate per intercettare Annibale, avvertendo l’altro console di raggiungerlo nel più breve tempo possibile.

Ma anche Annibale avanzava con la massima rapidità verso Roma.
Abituato alle volubili popolazioni spagnole, il Cartaginese pensava che i nostri alleati si sarebbero ribellati, aprendogli la strada verso l’Urbe.

Flaminio dunque, nell’intento di arginare Annibale, ingaggiò con il nemico una vera corsa, ma il Cartaginese si era mosso in anticipo e giunto in prossimità del Trasimeno, celò le sue truppe nelle vallate che circondano il lago.

Quando anche noi arrivammo in prossimità del lago, non solo non eravamo stati raggiunti dall'esercito di Gneo Servilio, ma per nostra sventura ci trovammo avvolti in una fittissima nebbia, mentre un tremendo terremoto scosse la terra, facendo cadere dall'alto sulle nostre teste massi e pietre.

Nel momento della nostra massima confusione Annibale, che occupava le alture, libere dalla nebbia, diede il segnale di attacco. Il console non si arrese al Dio nemico, ma prese le armi si preparò al combattimento.
Licinio Gladio ordinò ai legionari di seguire l'Aquila e le Insegne, poi raggiunta l'avanguardia si pose a fianco di Gaio Flaminio.

Combattemmo ferocemente, animati più dal desiderio di fare strage di nemici, che dalla speranza della vittoria.
Quando il console vide che non riuscivamo più a sostenere le cariche della cavalleria Cartaginese, spronato il cavallo si gettò nel folto dei nemici.

Il suo corpo non fu mai ritrovato.

Perduto il comandante, l'esercito si disfece.

Con pochi compagni ci dirigemmo verso la riva del lago, cercando di eludere i cavalieri Numidi.
Qui giunti, trovata una barca, a forza di remi ci allontanammo dalla terra, mentre cominciava a scendere una lugubre notte.

Protetti dalle tenebre, dopo avere remato a lungo verso meridione, riguadagnammo la riva.
Marciando lungo sentieri di campagna, ci ritrovammo sulla via Flaminia.
Qui incontrammo una lunga fila di legionari, che come noi si dirigeva verso Roma.

Fu allora che ebbi consapevolezza della sciagura che si era abbattuta su di noi, infatti mentre nel nostro piccolo gruppo non c'erano feriti, molti e sanguinanti erano quelli che aiutati dai commilitoni si trascinavano verso la patria.
Tra questi vidi Licinio Gladio, che ferito al petto, pur perdendo copiosamente sangue, si rifiutava di farsi portare su una lettiga.

A turno lo aiutammo a camminare, finché non perse i sensi, allora finalmente lo caricammo su una improvvisata lettiga.

Tutto sembrava perduto.
Mentre era nostra compagna la paura dei cavalieri nemici.
Era già notte inoltrata quando sentimmo rumore di zoccoli, in un baleno ci nascondemmo tra i cespugli, ma era uno dei nostri tribuni che con pochi cavalieri correva a Roma, ad avvertire il pretore urbano, perché preparasse la difesa della città.

Disfatti dalle fatiche ed oppressi dall'angoscia, ci fermammo per un torbido sonno.
Infine marciando instancabilmente per tre giorni, giungemmo a Roma.
Entrati in una città mai così silenziosa, fummo soccorsi e rifocillati, mentre Licinio Gladio fu curato da mani pietose.

Quasi ogni casa ospitò un ferito.

Eppure bene avevamo fatto a non arrenderci, infatti, i prigionieri ebbero diversa sorte, Annibale, al fine di accattivarsi gli Italici, lasciò liberi quelli che erano caduti nelle sue mani, i Romani furono tutti massacrati.

 

XIX – La catastrofe del Trasimeno premiò l’ardimento e la fortuna di Annibale, che tuttavia dovette pagare alla sua infida doppiezza un alto prezzo.

Infatti le popolazioni dell’Etruria e dell’Umbria, che avevano dovuto subire la crudeltà e le vessazioni dei mercenari Cartaginesi, lungi dall’aprire al nemico le porte delle loro città, si richiusero dietro alle mura, pronti a combattere.
Annibale tentò allora di ottenere con la forza ciò che altrimenti non aveva ottenuto e nell’intento di dare un esempio terrificante marciò verso Spoletium (Spoleto).

Circonvallata la città iniziò l’assediò, ma dopo circa una settimana, subite pesanti perdite, tolse l’assedio e mutò i suoi programmi.

Quanto avvenuto dimostrò che l’esercito Cartaginese, fortissimo in campo aperto grazie soprattutto alla cavalleria Numidica, non era temibile se doveva scalare mura nemiche.
Del resto la stessa Sagunto, pur assediata da soverchianti milizie Cartaginesi, era caduta soltanto dopo otto mesi.

Intanto a causa della morte di uno dei due consoli, fu nominato dittatore Quinto Fabio Massimo Verrucoso (275 – 203) e comandante della cavalleria Marco Minucio Rufo.

Quinto Fabio Massimo Verrucoso Marco Minucio Rufo

Fabio Massimo, ben prima di altri, aveva compreso che il nemico, era al momento invincibile, pertanto non doveva essere affrontato in campo aperto. Quindi per prima cosa fortificò tutti i passi che dall’Umbria e dall’Etruria conducono a Roma.

Contemporaneamente pose i suoi accampamenti in luoghi sopraelevati, inattaccabili dalla cavalleria di Maarbale, e pur seguendo Annibale da vicino, evitò ogni scontro, ma non appena i nemici lasciati i loro accampamenti, si disperdevano nei campi per vettovagliare, li prendeva prigionieri o ne faceva strage.

In questo modo portò all'esasperazione l'impaziente Annibale che fu costretto a modificare nuovamente i propri piani.

 

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