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LIBRO II - DAL TRASIMENO A CANNE

I – Fu la resistenza di Spoletium, la fedeltà dei nostri alleati, le tante perdite subite, la stanchezza dei suoi uomini ad indurre Annibale a mutare i propri piani.

Abbandonata per il momento l’idea di andare all’attacco di Roma, si diresse verso il mare Adriatico.
Arrivato nelle fertili terre del Piceno, posto il campo, fece riposare l’esercito per qualche giorno e lasciò che i suoi uomini si abbandonassero al saccheggio.

Rimessosi in cammino, arrivato in Apulia devastò il territorio di Arpi (in prossimità di Foggia) e Luceria (Lucera).

Con questi saccheggi Annibale veniva incontro ai desideri del suo esercito, formato prevalentemente da mercenari, ma al tempo stesso pensava di intimorire le popolazioni alleate di Roma.

Ottenne il risultato contrario, pochi alleati defezionarono, cedendo alla forza, mentre la fama della crudeltà e malafede dei Cartaginesi si diffuse tra tutti gli Italici.

 

II – A Roma intanto per rassicurare il popolo, il dittatore fece celebrare antichi riti e promise di dedicare a Venere Ericina un nuovo tempio sul Campidoglio, mentre il pretore Tito Otacilio Crasso ne votò uno alla dea Mente.


Dea Mente

Esauriti i sacri riti, Fabio Massimo ordinò a tutti gli abitanti che vivevano in campagna di riparare in luoghi sicuri, dopo aver dato alle fiamme qualsiasi cosa che potesse essere utile ad Annibale.

Portatosi, come altrove detto, sulle tracce del Cartaginese, si accampò non intendendo al momento scontrarsi con il nemico.
Annibale più volte provocò il dittatore sperando di indurlo a combattere, ma nulla valse a smuovere la fermezza di Fabio Massimo.

Peraltro le devastazioni recate dai Cartaginesi riempivano di furore i nostri alleati.
Nel tentativo di indurre gli Italici a defezionare, Annibale passò in Irpinia dove saccheggiò il Beneventano e prese la città di Telesia (prossima all’attuale Telese).

Inferocito perché i suoi piani non andavano a buon fine, mandò Maarbale a devastare l’agro Falerno fino a Sinuessa (l’attuale Mondragone), non di meno gli alleati restarono fedeli a Roma.

 

III - Per i tanti danni subiti, per quanto fedeli, i nostri alleati chiedevano a gran voce che fosse dato l’ordine di combattere.

Trovarono ascolto nel comandante della cavalleria Marco Minucio Rufo, già console (nel 221), che nel frattempo era stato nominato co-dittatore. 


Marco Minucio Rufo

Mai prima era avvenuto che Roma avesse due dittatori e per di più divisi da opposte opinioni.

L’esercito fu diviso a metà fra Fabio Massimo e Minucio Rufo. 
Costui, mentre Fabio Massimo era andato a Roma, cadde nella trappola tesagli da Annibale, che per indurlo a scoprirsi lasciò che un modesto scontro andasse a favore di Minucio.

Pochi giorni dopo Annibale mandò come esca un piccolo contingente di Cartaginesi in cima ad una collina, subito Minucio partì all’attacco con forze sempre maggiori, fino a quando il Cartaginese fece scattare la trappola e circondata la collina avrebbe fatto a pezzi Minucio con tutto l'esercito se, per buona sorte del Romano, non fosse arrivato Fabio Massimo a liberarlo.

Tanto Rufo era stato in precedenza imprudente, altrettanto si mostrò allora ragionevole e deposta la carica si rimise sotto al comando di Fabio.

 

IV – In quella stessa estate in Spagna riprese la guerra.

Asdrubale Barca nell’intento di togliere ai Romani il dominio del mare, aveva portato a quaranta navi la flotta Punica, comandata da Imilcone.


Imilcone

Partito dai quartieri invernali avanzò contro Gneo Cornelio Scipione per terra e per mare.
Scipione si imbarcò a Tarraco con trentacinque navi; giunto a breve distanza dalla foce dell’Ebro fu avvertito dagli alleati Massalioti, avanzati in esplorazione, che il nemico ignaro di tutto si era accampato sulle sponde del fiume.

Da una delle torri di guardia di cui abbonda la Spagna alcuni Cartaginesi, avvistata la flotta Romana, avvertirono Asdrubale: questi mandò urgentemente dei cavalieri perché facessero imbarcare soldati e marinai, che passeggiavano sulla spiaggia.

Come accade quando il tempo incalza, tutto avveniva nella massima confusione e mentre la flotta Romana si presentava in ordine di battaglia, i Cartaginesi cercarono scampo risalendo l’Ebro, ma mancando lo spazio per manovrare finirono per abbandonare le navi e riparare presso il loro esercito schieratosi sul litorale.

Scipione catturò venticinque navi nemiche, quattro ne affondò, le altre restarono incagliate nei bassifondi.
In un solo scontro la flotta Cartaginese era stata distrutta. 

 

V – Scipione, non più contrastato dalla flotta nemica, avanzò liberamente per mare verso Cartagena, sbarcato, saccheggiò il territorio facendo un grande bottino.

Di lì a poco dalle isole Baleari giunsero ambasciatori per chiedere pace e amicizia, tanto si era diffusa la fama della potenza Romana sul mare.

Tornato a Tarraco Scipione ricevette gli ambasciatori di centoventi città prossime all’Ebro e, consegnati ai Romani gli ostaggi, concesse la sua protezione.

Indi approfittando della stagione favorevole avanzò fino ai monti di Castulone (oggi Sierra Morena) dove si trovano le miniere d’argento più ricche della Spagna.

Intanto Asdrubale si ritirò in Lusitania (l'attuale Portogallo).

Ma ecco che Indibile, dopo che i Romani avevano lasciato i monti per il litorale, insorse con il fratello Mandonio, attaccando le popolazioni nostre amiche.


Indibile

Scipione, saputo che si trattava di una massa disordinata, mandò un tribuno con alcune coorti di legionari e truppe ausiliarie contro gli insorti, che in breve furono sconfitti e disarmati.

Fu allora la volta di Asdrubale a dover correre in aiuto dei propri alleati.
In quel mentre, incoraggiati da Scipione, i Celtiberi presero le armi contro i Cartaginesi, in due battaglie ne fecero strage, quattromila furono i prigionieri.

Un estate drammatica in Italia, si concludeva in Spagna con il trionfo delle armi Romane, grazie alla saggezza e al valore di Gneo Cornelio Scipione Calvo

 

VI – Mentre in Spagna avvenivano queste cose, in Italia montava la collera contro Fabio Massimo.
Gli Italici infatti vedevano le proprie terre devastate, senza che il dittatore mostrasse la minima volontà di affrontare il nemico.

La strategia di Fabio era volta a logorare Annibale, ma intanto a pagarne le spese erano i nostri alleati.
Quando furono indette le elezioni per nominare i nuovi consoli si era arrivati vicino al punto di rottura.

Furono eletti consoli per l’anno successivo (216) Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone.

Lucio Emilio Paolo Gaio Terenzio Varrone

Lucio Emilio, console con Livio Salinatore, assieme al collega aveva condotto la II guerra Illirica (219), in un momento critico per la Repubblica.

Grazie ad una completa e rapida vittoria ai consoli fu decretato il trionfo, ma poco tempo dopo furono entrambi accusati di avere sottratto parte del bottino.

Il plebeo Marco Livio Salinatore, condannato, abbandonò Roma sdegnato, Emilio Paolo, appartenente alla potente gens Emilia si salvò.


Marco Livio Salinatore

Nonostante questa macchia, attesa la mancanza di comandanti esperti, Emilio Paolo fu richiamato in servizio, peraltro poiché era stato già nominato console Gaio Terenzio Varrone, homo novus, valoroso e fermissimo, vero capo del partito popolare, Emilio Paolo fu eletto più come antagonista che come collega.

 

VII – Il Senato, nella ferma volontà di sconfiggere una volta per tutte Annibale e dare così soddisfazione ai nostri alleati, ordinò ai consoli di fare la leva per disporre ciascuno di quattro legioni.

In quei giorni ero a Roma, ospite di Lucio Licinio Gladio, tornato in piena salute. 
Lucio Licinio fu uno dei primi ad arruolarsi nelle legioni di Varrone, seguito da molti veterani della sua coorte, nonostante la mia giovane età mi invitò a seguirlo, in breve mi disse sarei divenuto uno dei suoi centurioni.

Tutti i miei desideri sembravano avverarsi, avrei combattuto con Lucio Licinio al seguito di un console nel quale massima era la nostra fiducia e presto avrei portato l’elmo da centurione.

 

VIII – Radunate le legioni in due distinti luoghi, i consoli si misero in marcia per andare incontro ad Annibale.

Quando si unirono a noi gli alleati le nostre forze assommavano a circa settantamila fanti e seimila cavalieri.
Tra gli alleati si distinse Gerone di Siracusa, che inviò mille arcieri e frombolieri, oltre a trecentomila moggi di frumento (circa 2 milioni e 600 mila kg).

Dopo una marcia di dieci giornate giungemmo in Apulia, non lontano da Arpi (vicino a Foggia), qui ci fortificammo costruendo due accampamenti.

Considerato il gran numero dei soldati i consoli furono raggiunti, quali comandanti aggiuntivi, da Gneo Servilio Gemino, console l’anno precedente e Minucio Rufo, anche lui già console (nel 221).

A causa dell'insanabile dissidio tra i due consoli in carica, fu stabilito che Emilio Paolo e Terenzio Varrone avrebbero esercitato il comando a giorni alterni.

Le intenzioni di Emilio Paolo furono subito chiare, poco dopo esserci fortificati, nel suo giorno di comando attaccò i Cartaginesi che dispersi nei campi mietevano il grano.
Fu una scaramuccia da poco della quale Emilio Paolo menò gran vanto, facendo adirare l’altro console.

Infatti Gaio Terenzio sapeva per certo che Annibale stava finendo le vettovaglie e poiché nelle vicinanze non era rimasto nulla da saccheggiare, dopo pochi giorni si sarebbe dovuto ritirare.
Dunque avremmo cacciato i Cartaginesi dalla Apulia senza versare sangue Romano.

Ma Lucio Emilio, ancora scottato dall’accusa di concussione, cercava ogni occasione per riconquistare il favore popolare.

Divenuto insanabile il conflitto tra i due consoli, concordarono di scrivere al Senato, sollecitando la sua decisione.
Come era purtroppo prevedibile il Senato diede ragione al patrizio e ordinò di attaccare.
Troppo tardi Gaio Terenzio si accorse di essere caduto nella trappola tesagli da Emilio Paolo.

Nel primo giorno del proprio comando Emilio Paolo schieratosi all’ala destra (secondo il costume romano il comandante in capo si metteva alla destra, per avere la completa visione del proprio schieramento), decise di avanzare contro Annibale.

Gaio Terenzio Varrone si chiuse nella propria tenda.

 

IX – Emilio Paolo come gran parte dei senatori, nutriva una sconsiderata fiducia nella nostra fanteria, ma noi reduci dal Trasimeno avevamo pagato un grande tributo di sangue alla cavalleria di Maarbale e quello stesso Maarbale ora ci attendeva con diecimila uomini, parte Galli e parte Numidi.

Usciti dagli accampamenti ci schierammo in questo modo: l’ala destra secondo il nostro costume toccava al comandante in capo Emilio Paolo, che disponeva oltre che degli ausiliari, di quattro legioni; al centro furono collocate con gli alleati Italici le tre legioni di Marco Terenzio, mentre una era tenuta di riserva, comandate dal consolare Marco Minucio Rufo; sulla sinistra Gneo Servilio Gemino comandava la cavalleria, dietro alla quale si trovavano gli arcieri e i frombolieri inviati da Gerone.  

Poco prima che iniziasse la battaglia Lucio Licinio Gladio, chiamati a sé i centurioni, i signiferi (portatori delle insegne di ogni coorte) e gli antesignani (legionari valorosissimi posti a difesa dei signiferi), disse che Maarbale avrebbe attaccato e se avesse messo in fuga la nostra cavalleria il nostro fianco sinistro sarebbe rimasto scoperto.
Per evitare questa evenienza nostra unica speranza era quella di aprirci un varco nella fanteria nemica, trascinandoci dietro le altre due legioni, quindi avremmo dovuto aggirare a nostra volta la cavalleria nemica togliendo a Maarbale ogni possibilità di manovra.

In verità Minucio Rufo sembrava incerto su cosa dovesse fare, così come Servilio Gemino, ciò accadeva perché il comandante in capo, per il grande numero dei nostri soldati e l’enorme area occupata, non riusciva a trasmettere tempestivamente gli ordini.

Seppi poi che qualcuno, disse che la colpa fu del vento che riempì di polvere gli occhi dei Romani.   

 

X –Mentre nella nostra parte regnava questa confusione, Annibale scrutava il campo di battaglia per cogliere i nostri punti deboli.

Visto che la cavalleria comandata da Servilio Gemino era insolitamente numerosa, decise di sacrificare i Galli e tenere di riserva Maarbale con i Numidi.


Maarbale

Fin dall’inizio le sorti della battaglia furono affidate alle rispettive cavallerie.
I Galli vennero all’attacco con grande baldanza, ma dietro alla nostra cavalleria, come detto, erano celati gli arcieri e i frombolieri di Gerone.

Tra l'esultanza dei nostri i Galli cadevano come pere mature, ma anche i nostri lasciarono sul terreno non pochi cavalieri.

Quando Annibale stimò che le nostre perdite ci avessero sufficientemente indeboliti, mandò all'attacco Maarbale.
Sollecitato dai nostri centurioni, primo fra tutti Licinio Gladio, Minucio Rufo ordinò l’avanzata.

Giunti in vicinanza dei nemici i veliti lanciarono i giavellotti, subito appresso di corsa ci avventammo sui nemici, che sorpresi dal vigore del nostro assalto incominciarono ad arretrare, finché non più si trattò di una ritirata ma di una vera fuga.

Sfondata la linea della fanteria Cartaginese volgemmo i nostri passi per fermare Maarbale.

Troppo tardi.

I Numidi avevano a loro volta disfatto la nostra cavalleria.
Ci trovammo allora in un brutto incastro, non potevamo inseguire a piedi i cavalieri Numidi, mentre intanto lo fanteria nemica si ricompattava.

Minucio Rufo lanciatosi sconsideratamente a cavallo con la sua guardia in cerca di Maarbale, cadde in una imboscata con tutti i suoi.

Rimasti senza comandante e con tribuni inesperti il comando fu preso da Licinio Gladio, che per salvarci ordinò di occupare una vicina altura, chiamando a gran voce gli ausiliari di Gerone perché si unissero a noi.
Maarbale vista la nostra manovra tentò di tagliarci la strada.

Quelli dei nostri che stavano nella retroguardia furono massacrati.

 

XI – Dalla sommità della altura da noi occupata ci sforzavamo di vedere dove fosse Emilio Paolo con le sue quattro legioni, ma le distanze erano così grandi che non riuscimmo a distinguere neppure le insegne.

Sembrava probabile che Maarbale, per quanti caduti potesse avere avuto la fanteria Cartaginese, messa in fuga la nostra cavalleria, fosse rimasto padrone del campo.

Quando ormai si avvicinavano le ombre della sera, declinò ogni nostra speranza vedendo avanzare nella pianura a cavallo, festosamente salutato dai suoi, Annibale.

In quel tragico frangente giunse a rianimarci un cavaliere mandato da Terenzio Varrone, che ci ordinava di restare celati fino alla terza vigilia (da mezzanotte alle tre di mattina): allora Gaio Terenzio ci avrebbe inviato uomini di sua fiducia per portarci in salvo a Canusium (Canosa), dove ci aspettava e dove contava di radunare tutti i superstiti.

Emilio Paolo era morto, Servilio Gemino era morto, Minucio Rufo era morto.

I cavalieri Romani non si sapeva dove fossero fuggiti.

In tale confusa catastrofe, qualche tempo dopo, seppi con certezza che alcuni nobili si proponevano di fuggire presso qualche re straniero.
Indignato Publio Cornelio Scipione, il figlio del proconsole, aveva minacciato di ucciderli con la sua stessa spada.


Publio Cornelio Scipione

Intanto, mentre avanzavano le tenebre della notte, dalla pianura si alzavano i canti dei Cartaginesi e strazianti da udire, i lamenti dei nostri feriti.

Noi eravamo impotenti.

 

XII – Arrivò infine la terza vigilia ed arrivarono le guide mandate da Gaio Terenzio.
Nel campo Cartaginese dove mercenari di tutte le razze gozzovigliavano, nessuno si accorse che quasi tre legioni Romane si stavano mettendo in salvo.

Del resto costoro erano ormai certi di avere in mano la stessa Roma.

Ai legionari che militavano sotto Emilio Paolo toccò una ben triste sorte, infatti per celare gli errori del comandante, quelli che non erano morti o feriti, furono accusati di viltà e spediti in Sicilia in punizione, fin quasi al termine della guerra.

Noi dopo una marcia di poche ore arrivammo a Canusium, soccorsi dalla popolazione locale.
Quando Gneo Terenzio Varrone valutò che non sarebbero arrivati altri legionari, convocati i centurioni ci mise a parte del suo piano.

Canusium era troppo vicina a Canne, quindi sarebbe stato oltremodo pericoloso per la popolazione che ci aveva generosamente accolto e per noi stessi rimanervi: dovevamo riprendere il cammino e dirigerci verso Venusiam (Venosa), che con le sue possenti mura poteva accoglierci senza rischi.

Alle prime luci dell’alba ci rimettemmo in marcia e camminando senza soste, dopo circa due ore giungemmo a Venusiam, dove Varrone ci aveva preceduto.

Il giorno seguente, fatte schierare le truppe, il console confortò i suoi soldati, queste sue parole sono rimaste scolpite nella mia mente:
“… i giorni nefasti passano, noi da oggi, da qui, impediremo a questo tracotante Annibale di risalire il mare Adriatico, lo ricacceremo nei campi che ha saccheggiato, tra genti che odia e disprezza la sua doppiezza e la sua crudeltà.
Solo di mercenari è fatto l’esercito nemico, la spada di Roma, la nostra spada calerà su queste canaglie”.

Gaio Terenzio premiò con la corona vallare Licinio Gladio (la corona vallare era assegnata a chi per primo entrava nell’accampamento nemico) ed assegnò premi ai più valorosi.

Anch’io fui premiato.

 

XIII – Se noi subimmo una disfatta, anche in campo nemico innumerevoli furono i morti ed i feriti.
A ciò si aggiungeva sempre più urgente la necessità di rifornimenti.

Al fine di trovare nuovi territori da saccheggiare, Annibale mandò un forte contingente ad Arpi, dove era stato informato che avevamo accumulato una grande quantità di frumento.

Appena videro avanzare i Cartaginesi gli abitanti si arresero e aperte le porte della città consegnarono tutto il frumento richiesto.
Caricati i sacchi sui carri, senza recare molestie ai cittadini, lieti i nemici si apprestarono a tornare nei propri accampamenti.

Ma dall’alto di una vicina collina potemmo osservare le loro mosse.

Gaio Terenzio ordinò che cinque coorti li seguissero nel massimo silenzio.
Intanto i nostri esploratori precedevano i Punici, cercando un luogo adatto a tendere insidie.
Quando lo trovarono, tornarono al galoppo tra noi.

Allora Gaio Terenzio ordinò di aggirare  il nemico, che a causa dei carri procedeva lentamente, per precederlo dove ci conducevano gli esploratori.

Qui giunti tendemmo l’agguato.

Quando i Punici furono alla nostra portata li attaccammo, con quella furiosa violenza che bruciava i nostri cuori.
Pochi dei loro cavalieri si salvarono fuggendo, massacrammo tutti gli altri.
Presi i carri con il frumento, li portammo nel nostro campo.
Quando Annibale fu informato dell’accaduto, scosso dall’ira, pensando che quelli di Arpi fossero nostri complici, ordinò di prendere la città.

I maggiorenti degli Arpi scongiurarono i Cartaginesi di risparmiarli, nulla essi sapevano, non avevano visto un solo Romano, ignoravano persino che ci fossero dei sopravvissuti.
I loro accenti furono così sinceri da convincere lo stesso Annibale, che impose loro di fornire delle guide per stanarci.

Intanto occupò la città.

 

XIV  - Lo smacco subito indusse i nemici a fermare ogni altra azione per venire contro di noi.

Avanzarono incautamente, pensavano infatti che un gruppo di Romani sbandati e affamati avesse assalito i carri.
Noi intanto arretrammo verso il campo che avevamo fortificato sui monti della Daunia, a settentrione di Siponto.

Qui, risalendo l’erta, senza concederci riposo, avevamo alzato lungo la montagna una serie di brevi steccati irregolari, paralleli l’uno all’altro, per avere, pur arretrando, una linea di difesa.

I Cartaginesi ci vedevano da lontano, ma per la ricca vegetazione che ci nascondeva non potevano stimare quanti fossimo.
Restando dunque convinti di andare a caccia di pochi sbandati, cominciarono a scalare la montagna senza darsi soverchio pensiero.

Grande fu allora la loro sorpresa quando i nostri veliti li attaccarono scagliando un nugolo di giavellotti.
Infine compresa quale fosse la realtà delle cose, chiesero ad Annibale di inviare rinforzi. Ma prima che questi arrivassero gli arcieri e i frombolieri di Gerone cominciarono a tormentarli, quando massima fu la loro confusione Gaio Terenzio ordinò l’attacco.
Favoriti dal terreno ci precipitammo sui Cartaginesi facendone strage.

Allorché i loro rinforzi arrivarono poterono soltanto raccogliere i fuggiaschi, informando Annibale dell’accaduto.
Il Cartaginese volendo una pronta vendetta inviò nuovi e cospicui rinforzi.
Ma intanto noi eravamo risaliti ed aspettavamo il nemico dietro gli steccati.

I Cartaginesi, forti del numero, almeno così credevano, ripresero a salire lungo la montagna, finché un loro manipolo incappato in uno dei nostri ripari, fu travolto da pietre, giavellotti e frecce e ributtato a valle.

La battaglia si svolse pertanto in modo inusitato, quando eravamo costretti ad abbandonare uno dei ripari lo incendiavamo, perché non fornisse rifugio al nemico, che ignorando dove fossero gli altri nostri steccati, disposti come detto in modo irregolare, cadevano continuamente nelle insidie che avevamo teso.

Feriti e scornati, lasciati sul terreno numerosi caduti, i Cartaginesi rinunciarono alla lotta e Annibale alla pronta vendetta. 

 

XV – Il primo disegno di Annibale era stato quello di stringere Roma in una morsa, risalendo lungo il mare Adriatico da un lato ed avanzando da meridione dall'altro lato, cercando in pari tempo di indurre alla defezione i nostri alleati.

Ma la resistenza che opponemmo in questo primo scontro gli fece comprendere che, al momento, non aveva le forze sufficienti per attuare il suo disegno.

Mutati pertanto i piani, Annibale mandò a Cartagine il fratello Magone ad annunciare la grande vittoria, a testimonianza della quale portò gli anelli d'oro di duecento nobili Romani caduti in battaglia.

Allo stesso tempo dopo, aver magnificato l’impresa, Magone chiese al senato Cartaginese di mandare al fratello denaro, viveri e rinforzi.

Intanto Annibale sperando che la tremenda sconfitta avrebbe piegato il nostro animo, inviò a Roma una ambasceria che concedeva moderate condizioni di pace.
Ma il Senato Romano, consultato il popolo, rifiutò qualsiasi trattativa.
L'uso della parola pace fu vietato.
Le manifestazioni pubbliche di lutto furono vietate.

Fu nominato dittatore Marco Giunio Pera, già console (nel 230) e censore (nel 225), il console Gaio Terenzio Varrone nominò un secondo dittatore,  Marco Fabio Buteone già console (nel 245) e censore (nel 241).

 

XVI – A Cartagine il senato Punico esultò per la memorabile vittoria, che Magone non mancò di esagerare impunemente.
Allora gli amici dei Barca presero a provocare Annone.
Disse Imilcone: “Pensi ancora, o Annone, che dobbiamo consegnare Annibale ai Romani?”.

Annone rispose: “Non avrei turbato tanto tripudio, se Imilcone non mi avesse chiamato in causa.
Mi rallegro per questa nostra vittoria che ci consente di concedere, più che di chiedere la pace, tuttavia mi domando, questo vostro invitto generale per bocca del fratello, ci dice, ho fatto a pezzi gli eserciti nemici,
mandatemi rinforzi.

Che mai avrebbe chiesto se fosse stato sconfitto?

Ho saccheggiato gli accampamenti Romani,
mandatemi viveri e denaro.

Che mai avrebbe chiesto se avesse perso i suoi accampamenti?

Ma ora anch'io vorrei porre una domanda a Magone, se la potenza di Roma è stata distrutta, quale dei suoi alleati Latini e passato a noi?”
Magone dovette rispondere: nessuno.
“Quali ambasciatori i Romani hanno mandato ad Annibale per chiedere la pace?” .
Magone rispose che non ne sapeva niente.
“E allora siamo ancora come all'inizio della guerra”.

Le parole di Annone caddero nel vuoto, la maggioranza del senato deliberò che si mandasse ad Annibale quanto aveva richiesto.

Ma deliberare è facile, fare è difficile, inoltre per la innata pigrizia dei Cartaginesi tutti i provvedimenti deliberati furono avviati con estrema lentezza.

 

XVII – Mentre tardavano ad arrivare gli aiuti chiesti a Cartagine, una insperata fortuna soccorse Annibale.

L'eco della sconfitta Romana si andava diffondendo in tutta l'Italia, con diversi esiti.
A settentrione di Roma neppure quei Galli, che sono tradizionalmente nostri nemici, ebbero motivo di rallegrarsi, visto che a Canne, tra morti e feriti, avevano lasciato sul terreno buona parte dei loro cavalieri.
Ma da Capua in giù la situazione si fece per noi Romani estremamente difficile.

Il Bruttio passò interamente dalla parte di Annibale, è pur vero che non abbiamo mai considerato i Bruttii nostri alleati, ma ora li dovevamo contare tra i nemici.

Tuttavia, ignorando i centri minori, Capua e Taranto rappresentavano il nostro cruccio.

Infatti in queste città si fronteggiano due partiti, uno filo-Romano, l'altro anti-Romano, che divenne ipso facto filo-Cartaginese.

Approfittando delle nostre difficoltà, Annibale avanzò con parte del suo esercito verso Capua.
Con l'aiuto del Cartaginese si compì il tradimento dei Capuani.

I capi della fazione filo-Romana o furono assassinati o costretti alla fuga, i Romani che si trovavano in città furono massacrati, mentre trecento cavalieri Capuani, che in Sicilia militavano nella nostre fila, chiesero asilo a Roma.

 

XVIII – La Campania si estende su una pianura che è la più favorita tra tutte, la circondano fertili colline e le montagne dei Sanniti e degli Oschi.

Si dice che questa terra era abitata dagli Opici, ai quali si dà anche il nome di Ausoni, poi la occupò un popolo degli Oschi, che fu sconfitto dai Cumani, a loro volta sconfitti dagli Etruschi.
La pianura infatti fu oggetto di molte contese per la sua fertilità.

Gli Etruschi vi fondarono dodici città, a quella che è come il capo di esse diedero il nome di Capua, ma abbandonatisi alla fiacchezza per l'eccessiva agiatezza, dovettero cedere la Campania ai Sanniti, che furono poi da noi cacciati.

Segno della fertilità del suolo è che qui nasce un grano bellissimo, vale a dire un frumento da cui si ricava un fior di farina superiore ad ogni altro prodotto a base di cereali.

I Romani fanno venire di là i vini migliori, quali il Falerno, lo Statano e il Caleno, ma ormai anche il Surrentino è comparabile con questi, dopo che recentemente si è sperimentato che si presta all’invecchiamento.

Capua, come detto, è la città principale della Campania (Capuania), infatti tutte le altre città, a paragone, possono essere considerate piccole, ad eccezione di Teanum Sidicinum.
Dalla parte di Roma si trova Casilinum (l’odierna Capua), che sorge sul fiume Volturno.

L’espansione di Roma verso meridione portò ad un primo scontro con Capua (nel 338). Dopo le guerre Sannitiche (288 ) Capua a compenso della propria fedeltà, fu riconosciuto lo status di “Civitas Optimo Iure (quindi ai suoi cittadini era riconosciuto il diritto di voto), e iscritta tra le trentacinque tribù Romane (la tribù Falerna), mantenendo peraltro le proprie istituzioni e le proprie tradizioni.

 

XIX – Per quanto sopra detto la defezione di Capua dall'alleanza con Roma, garantiva ad Annibale sicure vettovaglie e in pari tempo gli apriva la strada verso l’Urbe.

Peraltro il Cartaginese, temendo la riscossa del partito filo-Romano, prese possesso della città, dimostrando ai Capuani che non un alleato, ma un padrone avevano stoltamente ospitato.

Divenuta Capua il suo quartier generale, da qui aprì le trattative con i Cumani, i Neapolitani, i Paestani per disporre di un grande porto sul mare Tirreno, ma tutti questi popoli, per l'antico odio dei Greci verso i Cartaginesi e per di più ammaestrati dall'esperienza dei Capuani, rimasero fedeli all'alleanza con Roma.

Annibale passò allora alle minacce e non sortendo i risultati attesi diede la parola alle armi, ma per la fiera resistenza incontrata non riuscì ad espugnare nessuna di queste città.

In verità la resistenza delle città greche lungo il Tirreno: Cuma, Neapolis, Paestum, Velia, Vibo Valentia, Rhegium, costituì una delle chiavi di volta della nostra riscossa, infatti Annibale, senza alcun approdo sul mare Tirreno, non poté ricevere aiuti via mare, né da Cartagine, né dalla Spagna.

 

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