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PALAZZO E GALLERIA BARBERINI

Palazzo e Galleria Barberini
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I Barberini erano una famiglia probabilmente originaria di Barberino Val d’Elsa in provincia di Firenze, dove si trasferirono già nel XIII secolo. Sotto il papato di Paolo III Farnese, intorno al 1540 lasciarono Firenze per Roma. Accolti nella corte pontificia, “con parsimonia fiorentina”, dicono i contemporanei, accumularono grandi ricchezze fino ad assurgere al papato con Maffeo Barberini che nel 1623 prese il nome di Urbano VIII. 

Una famiglia papale doveva avere un degno palazzo, fu così che nel 1625 il più grande architetto del tempo Carlo Maderno (1556 – 1629), che aveva da poco finito la costruzione di San Pietro, fu incaricato di progettare Palazzo Barberini.

Vecchio e quasi cieco Maderno si affidò totalmente a Francesco Borromini (1599 – 1667), suo nipote per parte di madre, fino a quando nel 1629 venne a morte.
Intanto il fiorentino Pietro Bernini, noto a Roma per la Barcaccia di Piazza di Spagna, aveva introdotto, e bene si direbbe, il figlio Gian Lorenzo presso Urbano VIII. E poiché tra fiorentini ci si intende, Borromini si ritrovò primo aiuto di Bernini (1598 – 1680). Che poi Bernini fosse digiuno di architettura e ingegneria poco importa, tanto c’era il buon Francesco Borromini, i cui disegni autografi, ritrovati a Vienna, dimostrano che Bernini si occupò solo della parte ornamentale degli interni e della progettazione del grande salone nel piano nobile, per arrivare al quale disegnò lo scalone monumentale.

Ma data la grandezza del palazzo uno scalone non bastava: si occupò Borromini di costruire un’altra scala, la ineguagliata scala elicoidale, rispetto alla quale lo scalone di Bernini, non resse il colpo.

Per recuperare il colpo inatteso Bernini ricorse alla sue migliori risorse (arte e adulazione) e scolpì non uno, ma due busti di Urbano VIII, uno dei quali veramente stupendo e per giunta anche il ritratto del cardinale Antonio Barberini Seniore, fratello del Papa.
Nella facciata del Palazzo la mano di Borromini è ben visibile nella tridimensionalità delle finestre, probabilmente incoraggiato dallo stesso Maderno che apprezzava l’originalità e la fantasia del nipote.

A partire dal 1633, completato il Palazzo, Pietro da Cortona ha dipinto una delle sue opere più complesse, il grande affresco (24 metri per 14), “Trionfo della Divina Provvidenza”, al quale lavorò per oltre sei anni, terminandolo nel 1639. In questo affresco Pietro tesse una narrazione, densa di simboli e allegorie, che deriva dal complicatissimo testo di Francesco Bracciolini, già segretario di Maffeo Barberini, nonché letterato. Il problema che Pietro riesce a risolvere è quello di mantenere l’unitarietà della composizione, pur trovandosi alle prese con una molteplicità di temi e sotto temi. Il risultato finale è di una straordinaria spettacolarità.

Palazzo e Galleria Barberini Trionfo della Divina Provvidenza
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Il nome ufficiale della Galleria di Palazzo Barberini è Galleria Nazionale d’Arte Antica, espressione che può essere equivoca, visto cha a Roma quando si parla d’antico si pensa agli antichi romani.
La Galleria, articolata in 34 sale, è sterminata. Questa sovrabbondanza di opere, peraltro di grandissimi o comunque di grandi artisti, provoca inevitabilmente nel visitatore un senso di saturazione.
È questo un problema comune a non pochi musei romani al quale si potrebbe porre rimedio limitando drasticamente il numero delle opere esposte, presentando in modo permanente, secondo un appropriato allestimento, solo quelle che per giudizio unanime sono considerate capolavori ineguagliati, mentre gli spazi così ricavati potrebbero essere destinati a mostre tematiche, utilizzando i dipinti accantonati.
In coerenza con quanto sopra detto vi mostreremo una ristretta selezione di capolavori, ignorando grandi autori quali ad esempio Tiziano, Andrea del Sarto, Dosso Dossi, Garofalo, Lanfranco, Guercino e tanti, tanti altri ancora.

Iniziamo la nostra visita con l’amatissima Fornarina, tanto amata da Raffaello che Giorgio Vasari, nelle sue “Storie de’ più grandi pittori, scultori e architettori da Cimabue a tempi nostri” (1564) scrisse che la sua morte fu causata da “eccessi amorosi”.
Ma chi era la Fornarina?
Sembra che il suo nome fosse  Margherita Luti figlia di un fornaio (da qui Fornarina), trasteverino, questa identificazione è confermata da un documento ritrovato a fine ottocento nel quale si legge "al dì 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio (il convento di Santa Apollonia) Madama Margherita vedoa figliuola del quodam Francesco Luti“. In parole povere vuol dire che la Fornarina poco tempo dopo la morte del suo Raffaello si ritirò in convento.

Raffaello - La Fornarina
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Dopo aver reso omaggio alla Fornarina, riprendiamo il nostro viaggio in termini cronologici per incontrare la Madonna di Tarquinia di Filippo Lippi.
Frà Filippo di Tommaso Lippi (Firenze 1406 – Spoleto 1469), tra i pittori fu uno dei più grandi, ma tra i frati fu uno dei più birichini. Scrive il Vasari: "Dicesi ch'era tanto venereo (inteso come amante di Venere), che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe. Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all'opere quando era di questo umore, poco o nulla attendeva".
La Madonna era probabilmente destinata al palazzo che Giovanni Vitelleschi, arcivescovo di Firenze, si stava costruendo a Tarquinia.

Spettacolare non tanto il paffutello Bambino quanto la Madonna dal purissimo volto, il volto della sua modella preferita. Ma questa è un’altra storia...

Filippo Lippi - Madonna di Tarquinia
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Piero di Cosimo (Firenze 1461- 1521), fu allievo di Cosimo Rosselli e questo gli valse il nome con il quale è conosciuto.
Giovanissimo al seguito di Rosselli nel 1481 fu a Roma dove collaborò con il maestro nella realizzazione degli affreschi della Cappella Sistina “la Traversata del mar Rosso” e “il Sermone dalla Montagna”. Ebbe l’occasione di conoscere Botticelli, il Ghirlandaio e Luca Signorelli, anche loro al lavoro nella Cappella Sistina. 
Piero è passato alla storia con la fama di uomo stravagante, misantropo e a sentire il Vasari pieno di fobie: era atterrito dal tuono, temeva il fuoco, per comodità si cibava soprattutto di uova che usava per preparare il colore, proibiva che si pulisse la sua bottega e per finire sempre il Vasari scrisse che nei suoi ultimi anni “viveva più come una bestia che come un uomo”. Ma Vasari non sempre è del tutto credibile.
Ciò che oggi si può dire è che tornato a Firenze e morto il suo maestro, visse solitario, subì il fervore predicatorio di Savonarola e dobbiamo credere che con la messa a morte del frate si ritirò ancora di più in se stesso.

Piero è considerato uno dei massimi ritrattisti del Rinascimento, la Galleria di Palazzo Barberini ci mostra la sua indimenticabile Maria Maddalena.

Piero di Cosimo - Maria Maddalena
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Quentin Metsys (Lovanio 1466 - Anversa 1530), fu allievo di Hans Memling, uno dei maestri della scuola fiamminga. Fece il suo bravo viaggio di studio in Italia e a venticinque anni traslocò ad Anversa dove, sotto l’influenza dell’altro grande fiammingo Jan Van Eyck, fondò la scuola di Anversa. Le opere di Metsys rilevano quella tensione morale che da Erasmo da Rotterdam sarebbe approdata a Martin Lutero.
La Galleria Nazionale espone una delle sue opere più celebri, il ritratto di Erasmo da Rotterdam, che doveva essere un dono per Tommaso Moro, fraterno amico di Erasmo.

Il ritratto, tipicamente fiammingo per l’atmosfera cromatica e la cura di ogni particolare, risale al 1517, in quello stesso anno avvenne la rottura tra Martin Lutero e Papa Leone X, alla quale nel 1521 seguì la scomunica di Lutero e la nascita dello scisma luterano.

Quentin Metsys - Ritratto di Erasmo da Rotterdam
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Il senese Baldassarre Peruzzi (1481 – 1536), fu chiamato a Roma dal suo conterraneo, il grande mecenate Agostino Chigi “il Magnifico”.
Figura centrale del Rinascimento, architetto, scenografo, ingegnere militare, quale pittore ha eccelso nella Villa Chigi, nota oggi come Farnesina, a Sant’Onofrio, a San Pietro in Montorio e al Palazzo della Cancelleria. Baldassarre fu uno dei tanti artisti attratti dalla irresistibile e gioiosa personalità di Raffaello, con il quale collaborò in varie occasioni, in particolare nelle Stanze di Giulio II, a Villa Madama e nella Fabbrica di San Pietro.
Durante il Sacco di Roma del 1527, fu catturato e maltrattato da una banda di lanzichenecchi. Per la sua liberazione fu pagato un riscatto. Fuggito da Roma riparò a Siena.
Poco dopo il 1530 tornò a Roma dove morì nel 1536, secondo il Vasari poverissimo, ma questa sembra essere una licenza poetica del fantasioso Vasari, visto che, a riprova della sua grande fama, fu sepolto nel Pantheon accanto all’amico Raffaello.

Nella Galleria vediamo la sua originalissima Cerere.

Baldassarre Peruzzi - Cerere
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Lorenzo Lotto (Venezia 1480 - Loreto 1556), non imparò il mestiere di vivere e fu destinato all’infelicità e all’oblio. Fu riscoperto nel 1895 grazie al grande storico dell’arte Bernard Berenson che scrisse: "Per capire bene il Cinquecento, conoscere Lotto è importante quanto conoscere Tiziano".
La sua inquieta vita di pittore si svolse in un incessante andirivieni tra Venezia, Treviso, Recanati, Roma, Jesi, Bergamo, Macerata, Cingoli, Ancona, Loreto, talora a rischio di essere accusato di eresia o luteranesimo e quindi di essere sottoposto all’Inquisizione.
Fu Lotto uno dei massimi ritrattisti del cinquecento, la peculiarità che lo rende unico va ritrovata nella sua volontà di volere entrare, svelare l’animo e dialogare con la persona ritratta.

Il Matrimonio Mistico di Santa Caterina d’Alessandria testimonia la complessità e l’originalità della sua espressione artistica.

Lorenzo Lotto - Matrimonio Mistico di Santa Caterina d’Alessandria
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Domenico Beccafumi (Montaperti 1486 – Siena 1551), era figlio del contadino Giacomo di Pace, ma poiché il nobile Lorenzo Beccafumi gli fece studiare pittura prese il cognome del suo mecenate.
La sua “maniera”, cioè il suo stile fu accostato a quelli di Frà Bartolomeo, di Filippino Lippi, del Sodoma, di Pontormo, di Raffaello e di altri ancora; sarà pur vero, ma l’originalità e la grandezza di Domenico Beccafumi sta nella sua tensione nel voler andare oltre la classica forma rinascimentale, che ormai aveva raggiunto un tale livello da potersi dire esaurita se non esausta. Beccafumi affida questa sua tensione a un linguaggio nuovo nel quale luce e colore abbandonano la realtà per approdare nel mondo della fantasia e dell’immaginazione.

Nella Galleria Di Palazzo Barberini è esposta la delicatissima Madonna col Bambino e San Giovanni, opera della sua piena maturità e in questo capolavoro è evidente come Beccafumi trascenda l’equilibrio rinascimentale, natura-forma-colore, per creare attraverso luce e colori immaginari un mondo di nuove emozioni.

Domenico Beccafumi - Madonna col Bambino e San Giovanni
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Del Brescianino sappiamo ben poco, incerta è la sua data di nascita 1486(?) e quella della morte 1527(?) il nome con il quale è conosciuto sembra che sia dovuto alla città di nascita del padre, ballerino professionista.

Nelle sue opere si riscontrano influenze di Raffaello, Beccafumi e Andrea del Sarto. La Galleria ci mostra il suo memorabile ritratto di Sulpizia Petrucci, moglie di Sigismondo Chigi, fratello di Agostino “il Magnifico”.

Brescianino - Ritratto di Sulpizia Petrucci
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Giulio Pippi (Roma ? - Mantova 1546), meglio noto come Giulio Romano, pittore e architetto, fu il più stretto collaboratore di Raffaello; alla sua prematura morte (1520), ne ereditò la bottega, dedicando gli anni immediatamente successivi al completamento delle Stanze Vaticane, in particolare la Sala di Costantino, che Raffaello sventuratamente scomparso aveva lasciato incompiuta.

Ufficialmente la sua nascita è datata 1499, ma Vasari che lo conobbe personalmente afferma che era del 1495. Considerato che nel 1520 ereditò la bottega di Raffaello la versione di Vasari appare la più credibile, 
Scampò al Sacco di Roma del 1527 trovandosi a Mantova alla corte di Federico II Gonzaga, per il quale costruì il famoso Palazzo Te. La sua fama di eccelso architetto gli valse nel 1546 la nomina a primo architetto della Fabbrica di San Pietro, ma la morte sopraggiunse e fu allora che finalmente l’ultra settantenne Michelangelo, che da trent’anni ed oltre si consumava nell’attesa, divenne Primo Architetto.   
La sua vicenda di pittore può essere divisa tra il tempo durante il quale collaborò con Raffaello e il tempo successivo alla morte del maestro.
L’analisi del periodo raffaellesco è ardua perché il lavoro all’interno della bottega di Raffaello seguiva un sistema che non consente di risalire agevolmente alle singole individualità, difficile quindi riconoscere la mano di Giulio. Nel periodo successivo Giulio segue un proprio autonomo percorso, che si caratterizza per il disegno marcato, che non concede al colore ampi spazi.

Nella Galleria Nazionale d’Arte Antica risplende la Madonna col Bambino, una delle sue opere migliori, dipinta intorno al 1523 poco dopo la morte di Raffaello e tuttavia già espressione dello autonomo stile di Giulio.

Giulio Romano - Madonna col Bambino
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Bartolomeo Veneto (1502 – 1555), dove sia nato non si sa, ma dato che è anche noto come Bartolomeo Veneziano abbiamo un buon indizio, confortato dalla firma che appose su un quadro veneziano della Madonna, nella quale si legge: Bartolamio mezo venizian e mezo cremonexe.
Nelle sue prime opere veneziane si riconosce l’influenza di Giovanni Bellini e di Cima da Conegliano, successivamente fu chiamato a Ferrara presso la corte degli Este e qui decorò le stanze di Lucrezia Borgia.
Da Ferrara passò a Milano dove studiò i dipinti di Leonardo, per specializzarsi infine come ritrattista.

Il ritratto di gentiluomo, che vediamo nella galleria di Palazzo Barberini, mostra la grande maestria alla quale era arrivato.

Bartolomeo Veneto - Ritratto di gentiluomo
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Agnolo Bronzino (Firenze 1503 – 1572), imparò l’arte dal Pontormo, nel 1541 entrò nell’Accademia Fiorentina, fu a Roma nel 1548, tornò a Firenze a tempo per essere cacciato dall’Accademia Fiorentina e nel pieno delle contese artistiche fu nominato riformatore dell’Accademia delle Arti del Disegno e infine riammesso con tutti gli onori nell’Accademia Fiorentina.
La sua vicenda mostra quanto aspro fosse il conflitto tra conservatori e innovatori.

Il Bronzino fu un grande ritrattista, nella Galleria Nazionale d’Arte Antica vediamo uno dei suoi capolavori, il ritratto di Stefano IV Colonna, luogotenente generale di Cosimo I de’ Medici Granduca di Toscana.

Agnolo Bronzino - Ritratto di Stefano IV Colonna
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Tintoretto (Venezia 1518 – 1594), fino al 2007 il suo vero nome risultava essere Jacopo Robusti, chiamato Tintoretto perché il padre faceva “el tentor”, tintore di stoffe; ma appunto nel 2007 il curatore del museo del Prado, Miguel Falomir, rese inoppugnabilmente noto che il suo vero cognome era Comin e che Robusti in realtà era il soprannome del padre.
Robusto il padre, robusto il figlio, tanto che per la sua forza espressiva fu anche chiamato il Furioso.
Fu uno dei maggiori pittori veneziani e viene considerato l’ultimo grande pittore rinascimentale, peraltro quel suo “furioso” (oggi diremmo drammatico), impiego del colore, della luce e della prospettiva apre la strada all’arte barocca.

Come detto il Tintoretto fu chiamato da qualcuno il Furioso e certo non solo la sua pittura era energica, ma lo era anche il suo carattere. In particolar modo era agguerritissimo quando voleva aggiudicarsi una commissione in concorrenza con altri.
Vasari ricorda uno di questi episodi, quando con una mossa spregiudicata riuscì ad aggiudicarsi un lavoro, provocando “scalpore e malcontenti”.
I ritratti erano per i pittori uno dei vettori più sicuri per arrivare al successo, ma bisognava lottare contro il fattore tempo, perché come si sa le persone importanti hanno poco tempo da perdere. Tintoretto elaborò allora una tecnica per essere il più celere possibile: preparava a priori degli studi dal vero e li conservava, la posa era preconfezionata, la tela pronta, così quando il doge Girolamo Priuli gli commissionò il proprio ritratto, si dice che lo finì in mezz’ora (beato chi ci crede!).  
Jacopo non era afflitto da pregiudizi infatti non poche “cortigiane” furono da lui ritratte e talora in veste di eroine mitologiche. Non possiamo affermare che Jacopo avesse un secondo fine, certo è che le cortigiane avevano (hanno?), un modo tutto loro per arrivare al cuore e alla borsa dei grandi.

Nella galleria Nazionale è esposto uno dei suoi quadri più noti “Cristo e l’Adultera”, che testimonia la peculiarità di Tintoretto nel panorama del rinascimento italiano.

Tintoretto - Cristo e l'Adultera
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Dominikos Theotokopoulos alias El Greco (Candia 1541 – Toledo 1614), venne al mondo nell’isola di Creta; il suo percorso artistico iniziò come pittore di icone fino a quando nel 1566 partì per Venezia, meta obbligata, visto che Creta apparteneva a Venezia (soltanto nel 1669 Creta fu occupata dagli Ottomani).
A Venezia approdò nella bottega di Tiziano, da qui si recò a Roma, dove si fece onore diventando membro dell’Accademia di San Luca.
Il soggiorno in Italia fu determinante per la sua crescita artistica: per quanto possiamo capire Tintoretto con i suoi aloni, i suoi contrasti di luce trovò nella sensibilità di El Greco una feconda corrispondenza.
Intorno al 1576 andò in Spagna alla corte di Filippo II, il suo intento era quello di esaltarne il ruolo di difensore della Cristianità.

Per comprendere questo intento programmatico del Greco è necessaria una digressione storica.
Gli Ottomani erano stati appena sconfitti (1571), nella battaglia di Lepanto, fermandone l’irresistibile avanzata che li aveva portati a distruggere il regno di Serbia, quello di Bulgaria, a conquistare Buda e nel 1453 la stessa Costantinopoli, dove la famosa chiesa di Santa Sofia fu trasformata in moschea, e poi ancora conquistarono Otranto e Rodi. In conclusione, chi come El Greco era nato a Creta sentiva incombente il pericolo dell’invasione Ottomana dalla quale il mondo cristiano doveva difendersi e quale migliore difensore se non il grande re di Spagna?
I foschi timori di El Greco dovevano avverarsi poco dopo la sua morte, infatti nel 1648 gli Ottomani sbarcarono a  Creta.
Tornando a Filippo II, El Greco non fece breccia nel suo cuore, deluso se ne andò a Toledo dove restò fino alla morte.

Nella Galleria di Palazzo Barberini vediamo “l’Adorazione dei Pastori e “il Battesimo di Cristo”, opera tipica della maturità di El Greco con le figure allungate illuminate da una luce argentea, dalla quale si può riconoscere l’influenza del Tintoretto.

El Greco - Battesimo di Cristo
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Annibale Carracci (Bologna 1560 – Roma 1609).
Mentre la pittura tardo rinascimentale si andava esaurendo Annibale Carracci si impegnò con tutte le sue forze per recuperare e modernizzare la grande arte italiana del primo ‘500.
Arrivato a Roma nella chiesa di Santa Maria dei Funari dipinse la Santa Margherita, prima sua opera pubblica romana. Si dice che Caravaggio, dopo essersi fermato lungamente a guardarla abbia detto “mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore”.

Nella nostra Galleria vediamo l’intenso Ritratto di Giovane.

Annibale Carracci - Ritratto di Giovane
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Guido Reni (Bologna 1575 – 1642), suo padre era un musicista, che pertanto lo avviò verso la musica, ma già a nove anni Guido inflisse al padre l’amara delusione di abbandonare la musica al suo destino per darsi alla pittura. Il padre lo sistemò presso la bottega del suo amico, il pittore fiammingo Calvaert, che si impegnò a tenere presso di se Guido per 10 anni, qui ebbe la fortuna di avere quali compagni di studio Domenichino e Francesco Albani.
Nel 1600 parte per Roma dove lavora nella chiesa di Santa Cecilia. A Roma tornerà più volte grazie al grande successo che lo accompagnò in vita.
Successo dovuto alla sua capacità di fondere classicismo e naturalismo alla ricerca del bello ideale.

Nella Galleria di Palazzo Barberini vediamo una delle opere migliori di Guido: la dolcissima e tristissima Beatrice Cenci.

La tragica vicenda dei Cenci ha ispirato scrittori come Shelley, Stendhal e Dumas padre.
Beatrice Cenci nel 1599 finì decapitata, sotto l’accusa di aver partecipato all’assassinio del padre il conte Francesco, assieme alla matrigna Lucrezia e al fratello Giacomo. L’indegno padre era già stato condannato due volte per "colpe nefandissime" e durante il processo fu accusato di aver stuprato Beatrice. Non di meno, sfidando l’ira del popolo romano, Lucrezia, Beatrice e Giacomo furono condannati a morte, le donne per decapitazione, l’uomo per squartamento.
L'esecuzione ebbe luogo di fronte a Castel Sant’Angelo, tra tumulti di folla, cui seguirono morti e annegati nel Tevere. Anche Caravaggio con Orazio Gentileschi e il mite Guido Reni erano in piazza tra i popolani.

Guido Reni - Beatrice Cenci
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Michelangelo Merisi, il Caravaggio (Caravaggio o Milano 1571 o 73 - Porto Ercole 1610), sul luogo di nascita si discute, secondo qualche documento era nato a Caravaggio, secondo altre fonti i genitori erano di Caravaggio, mentre lui sarebbe nato a Milano.
Comunque sia per fuggire dalla peste i genitori lasciarono Milano per Caravaggio e qui di peste morirono il padre e i nonni. La vedova tornata a Milano con i quattro figli, riuscì a far assumere (1584) per pochi soldi il nostro nella bottega di Simone Pederzano, pittore allora in voga.
Da apprendista si applicò con diligenza per circa quattro anni, anche se, secondo i suoi biografi, già allora fece “qualche stravaganza”.

Ma nel corso degli anni quelle stravaganze diventarono sempre più incontrollabili.
La violenza, la drammaticità, la provocatorietà eversiva della sua pittura sono lo specchio di “una vita maledetta”.
Nel 1590 era già a Roma.
Nei primi tempi fu dura, tra miseria, stravizi e malattie, per tirare avanti andò a bottega da Giuseppe Cesari, noto come il Cavalier D’Arpino, pittore di successo, che lo ospitò a casa propria. Probabilmente a causa di una malattia, per la quale fu ricoverato all’ospedale della Consolazione (accanto alla omonima chiesa), interruppe la collaborazione con il Cavalier d’Arpino.
La svolta nella vita di Caravaggio avvenne nel 1595 quando fu scoperto dal cardinal Del Monte, grande appassionato d’arte, che, oltre a dargli casa e stipendio, lo presentò alla gente che conta: il marchese Giustiniani, i Barberini, i Massimo, i Colonna e infine il cardinale Scipione Borghese, al quale dobbiamo molte delle tele che oggi vediamo nella Galleria Borghese. 

E arrivò il successo.
Ma…
quel suo “cervello stravagantissimo”, come ebbe a dire il suo protettore cardinal Del Monte, lo doveva tradire più volte.
Incapace di tenersi lontano da prostitute, bettole e ubriacature, passò di eccesso in eccesso si va dalle liti, alle ferite, si passa alle denunce, si arriva agli arresti. Rimesso in libertà grazie all’intervento dell’ambasciatore di Francia, poco tempo dopo altro ferimento a causa di Lena (sua modella per la Madonna dei Pellegrini), Non basta, presto incappa in nuove denunce per insulti e sassaiole contro i birri, inframmezzate da varie altre violenze, finché arriva il peggio, nel 1606 si scontra con tal Ranuccio, lui resta ferito, l’altro muore.      
Questa volta i suoi protettori non riuscirono a salvarlo dalla condanna alla decapitazione e il tema della testa mozzata, nella quale spesso raffigura se stesso, diverrà per Caravaggio un’ossessione. 
Intanto occorreva scappare da Roma, furono i Colonna a favorire la sua fuga nascondendolo nei loro feudi laziali. Per assicurare la sicurezza al fuggiasco, fuori dai confini dello stato pontificio, i Colonna lo affidarono ai loro parenti napoletani i Carafa Colonna e a Napoli Caravaggio restò un anno, fecondo di pittura e senza “stravaganze”.
Passa un anno, siamo nel 1607, Caravaggio, grazie sempre ai Colonna, parte per Malta presentato al Gran Maestro dell’Ordine dei cavalieri di San Giovanni.

Perché andare a Malta?
La ragione è presto detta: se fosse diventato Cavaliere avrebbe ottenuto l’immunità e dunque la condanna alla decapitazione sarebbe decaduta.
A Malta dipinse la “Decollazione di San Giovanni Battista” che gli valse il titolo di Cavaliere di Grazia.
Obiettivo raggiunto: Caravaggio salvo? ahimè no, lo tradisce una nuova “stravaganza”: si scontra (offese, ferite), con un Cavaliere aristocratico, salta fuori che è un condannato a morte e viene imprigionato. Evaso, non si sa come, fugge in Sicilia, inseguito dai bravacci del Cavalier nemico. Mentre gli indignati Cavalieri di Malta lo cacciano dall’Ordine “come membro fetido e putrido”.
In Sicilia braccato dai vendicatori dell’onore del Cavalier offeso passa di città in città, prima Siracusa, poi Messina, infine Palermo, sempre dipingendo. Da Palermo si imbarca e torna a Napoli, dove viene raggiunto e ferito gravemente dai bravacci dell’implacabile maltese.
Circolò la notizia della sua morte, ma Caravaggio si riprese dando vita a una nuova stagione pittorica nella quale certamente dipinse la Sant’Orsola e Davide con la testa di Golia, una delle sue opere più drammatiche, nella quale la testa mozzata di Golia non è altro che il suo autoritratto, a rappresentare le proprie ossessioni e il proprio desiderio di morte.

E la morte arriverà di lì a poco.
I suoi protettori non avevano rinunciato alla speranza di fargli ottenere la grazia e Papa Paolo V Borghese era ormai pronto per firmarla. Caravaggio non volle indugiare, imbarcatosi per avvicinarsi a Roma, tra varie vicissitudini sbarcò a Palo (a circa trenta chilometri dalla agognata meta), feudo degli Orsini, ma i sui beni erano rimasti sulla nave e tra questi il quadro di San Giovanni Battista promesso al cardinale Scipione Borghese (nipote del Papa), Caravaggio allora si rimise in mare per raggiungere la nave diretta a Porto Ercole.
Consunto e malato, arrivato a Porto Ercole, morì pochi giorni prima che arrivasse la grazia.
Nella sua vita disperata Caravaggio non ebbe allievi, ma la sua deflagrante personalità generò innumerevoli “caravaggeschi”, artisti che dipinsero nel suo segno.

Nella nostra Galleria Caravaggio ci mostra Giuditta e Oloferne.
Secondo una plausibile interpretazione, se non altro per la coincidenza delle date, Giuditta alias Beatrice Cenci è colta nell’atto di uccidere l’indegno padre e questo spiegherebbe l’orrore che si legge nel volto di Giuditta-Beatrice.

Ma l’elemento di maggiore drammaticità è rappresentato da Oloferne, che probabilmente raffigura lo stesso Caravaggio, nell’atto di essere decapitato. La metafora caravaggesca viene così spiegata: lui stesso giudica meritevole la propria decapitazione a causa della vita violenta e dissoluta alla quale solo la morte può sottrarlo.

Caravaggio - Giuditta e Oloferne
Giuditta e Oloferne - clicca per ingrandire

E per ultimo ci siamo conservati Enrico VIII di Hans Holbein il giovane (Augusta 1497- Londra 1543), che imparò a dipingere nella bottega del padre (il vecchio). Nel 1515 la famiglia si trasferì a Basilea dove conobbe Erasmo da Rotterdam, e fino al 1526 dipinse ritratti per i ricchi mercanti del luogo e anche qualche soggetto religioso.
Grazie alle lettere di presentazione di Erasmo da Rotterdam e di Tommaso Moro scappò da Basilea e dai Luterani e si accomodò a Londra.
Finalmente nel 1536 fu eletto a pittore personale di Enrico VIII e divenne diciamo pure il fotografo ufficiale della corte inglese.

Nella Galleria Nazionale è esposto il celeberrimo ritratto di Enrico VIII in tutta la sua tracotante maestà, che richiama alla mente:

Li soprani der monno vecchio                      soprani = sovrani
C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
“Io so’ io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.                   bbuggiaroni = gente da poco

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo”.

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: E’ vvero, è vvero.

Giuseppe Gioachino Belli, Roma 21 gennaio 1831

Hans Holbein il giovane - Ritratto di Enrico VIII
Ritratto di Enrico VIII - clicca per ingrandire

 

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