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BOOK IV - CESARE IN GALLIA: LA CAMPAGNA CONTRO GLI AREMORICI


Burebista

I – Informato che le tribù Celtiche, incitate da Burebista re dei Daci, si spingevano ai confini dell'Illiria, Cesare, tornato in Italia, attraversata la Cisalpina, prima che la stagione precipitasse arrivò a Patavium (Padova): qui presa la via Annia raggiunse Aquileia.


Aquileia

In passato un popolo dei Celti, lasciate le proprie terre, seguendo il corso del Danubio, si era spinto fino ai confini della Dacia.

Di seguito una parte di loro, ripresa la marcia, arrivò in Asia (Minore) dove combattendo contro i popoli della Bitinia e della Cappadocia, fondò un proprio stato, denominato Galatia, poiché i Celti sono detti anche Galli.

Di seguito questi Galli vollero invadere il regno di Pergamo, ma sconfitti rovinosamente da Attalo re di Pergamo, dovettero rientrare nei propri confini.


Attalo

Cesare, non sottovalutando il pericolo rappresentato dai Celti, giunto ad Aquileia, ordinò al nostro presidio e ai coloni di prepararsi allo scontro, ma i barbari appena ebbero notizia dell'arrivo di Cesare, tornati celermente verso il Danubio, inviarono ambasciatori, chiedendo l'amicizia del Popolo Romano.

Cesare, imposta la consegna di un certo numero di ostaggi, concesse la sua protezione.

Spento sul nascere il pericolo, dopo avere molto lodato il nostro presidio di Aquileia e i valorosissimi coloni, partì alla volta di Rimini, dove tenne le sessioni di giustizia.

 

II – Intanto a Roma erano tribuni della plebe Publio Clodio Pulcro, seguace di Cesare e Tito Annio Milone, l'uomo degli Ottimati.

Publio Clodio Pulcro Tito Annio Milone

Mentre si susseguivano gli scontri tra le due fazioni, incerta era la posizione di Pompeo.

Informato della situazione Cesare pensò che fosse necessario rinsaldare i legami con Pompeo e Crasso, poiché temeva che la loro mai sopita inimicizia potesse sfociare in aperto conflitto.
Pertanto li convocò a Lucca, per confermare i patti precedentemente stabiliti.

L'incontro avvenne quando stava per finire l'inverno (dell'anno 56).
I disordini scoppiati a Roma, avevano generato un clima di grande incertezza, tanto che Pompeo e soprattutto Crasso dubitavano che le loro candidature al consolato (per l'anno successivo il 55) avrebbero avuto successo contro il compatto schieramento degli Ottimati, che avevano in Milone il loro braccio armato.

Cesare, avendo percepito quale fosse il nodo da sciogliere perché la loro alleanza non naufragasse, preso da parte Crasso, lo rassicurò promettendo che avrebbe mandato a Roma per le votazioni un così gran numero di soldati e di coloni da rendere sicura l'elezione sua e quella di Pompeo, in pari tempo questi stessi soldati avrebbero ridotto al silenzio la banda di Milone.

Cesare non disse che in questo modo obbligava lo stesso Pompeo a stare ai patti.
Crasso, che nutriva in Cesare la massima fiducia, a sua volta promise di rimborsare parte delle spese che i legionari e i coloni avrebbero sostenuto per andare a Roma.

Su queste basi fu trovato l'accordo: Pompeo e Crasso sarebbero stati eletti consoli l'anno successivo (il 55); a Pompeo sarebbe stata assegnata la Spagna con quattro legioni; a Crasso la Siria con altrettante legioni; a Cesare sarebbe stato prorogato il comando in Gallia per altri cinque anni (dal 54 al 49).

Intanto Pompeo gli avrebbe prestato due legioni.

 

III – In Gallia, per ordine di Cesare, Servio Sulpicio Galba parte con la XII legione per liberare la strada che partendo dal lago Lemano, dove confina con le terre degli Allobrogi, passa per Octodurus (oggi Martigny in Svizzera), poi attraversa le Alpi per scendere nella Cisalpina.

I mercanti Romani che percorrevano questa strada, erano spesso attaccati dalle tribù montane dei Seduni e dei Veragri, che li costringevano a pagare pesanti pedaggi.

Per consentire lo sviluppo dei commerci, Galba doveva ridurre alla ragione i barbari e liberare i mercanti da ogni tipo di rischio. Dopo molti scontri e dopo aver espugnato diverse fortezze nemiche, Galba ricevette una delegazione dei Galli che chiedevano la pace. Presi gli ostaggi e fatta la pace, Galba tornò ad Octodurus dove pose il campo per svernare.

Questo luogo è circondato da altissime montagne e lo stesso villaggio è diviso in due parti dal fiume Drance, Galba pertanto destinò ai Galli una parte del villaggio e riservò a se stesso l'altra, che si apprestò a fortificare con un vallo e un fossato.

 

IV – Erano passati parecchi giorni dacché Galba si era accampato, quando fu informato che durante la notte tutti i Galli erano partititi, mentre le vicine montagne erano occupate da una grande moltitudine di guerrieri Seduni e Veragri.

Cosa fosse passato per la testa di costoro non è dato sapere, forse pensavano che una sola legione poco avrebbe potuto contro un così gran numero di armati, favoriti per di più dalla posizione che avrebbe consentito loro di bersagliare i nostri dall'alto.

La situazione di Galba era quanto mai critica, le fortificazioni non erano ultimate, scarseggiavano i viveri ed infine per l'interruzione delle strade, a causa delle nevi invernali, era inutile sperare nell'arrivo di rinforzi.

Convocato il consiglio di guerra fu deciso di difendere il campo.

 

V – Presa questa decisione, i nostri stavano cominciando a prendere gli opportuni provvedimenti, quando i nemici si precipitarono dall'alto delle montagne, venendo all'assalto del vallo, con un fitto lancio di pietre e giavellotti.

Dapprima i legionari respinsero l'assalto, ma con il passare del tempo i Galli continuavano ad affluire, sostituendo con truppe fresche i feriti e quelli che erano sfibrati dalla stanchezza. I nostri invece, per lo scarso numero, non potevano ritirarsi dal combattimento neppure se erano oppressi dalle ferite.

Vedendo che la situazione stava precipitando il valorosissimo primipilo Publio Sestio Baculo, e con lui il tribuno Gaio Voluseno Quadrato, uomo sagace e coraggiosissimo, dissero a Galba che restava un’unica speranza di salvezza: erompere dal vallo e gettarsi sui nemici. 


Gaio Voluseno Quadrato

Galba non perde tempo, chiamati i centurioni, ordina di sospendere per un po' il combattimento, per riprendere fiato, limitandosi a schivare le frecce.

Poi al suo segnale precipitarsi fuori dal campo, assalire i nemici, rimettendo nel valore ogni speranza di salvezza. 

 

VI – I nemici, visto che da parte nostra era cessata ogni reazione, certi della vittoria, avanzano portando un gran numero di fascine per riempire il fossato e scalare il vallo. Appena si apprestano ad attraversare il fossato, aperte tutte le porte, i legionari si gettano su di loro, che increduli e sorpresi non sanno difendersi, ma volte le terga fuggono verso le montagne incalzati dai nostri.

Di trentamila quanti erano un terzo cadde ucciso o ferito.

Sbaragliato il nemico i nostri tornarono nell'accampamento.

Galba tuttavia, temendo che i Galli, raccolte ulteriori forze tornassero alla carica, preoccupato per la mancanza di viveri, il giorno appresso, bruciate tutte le case del villaggio, fa ritorno nella Provincia, portando con sé gli ostaggi. Nessun nemico osò contrastare la sua marcia, così la legione incolume dapprima arrivò fra i Nantuati, poi raggiunse le terre degli Allobrogi, dove svernò.

 

VII – Mentre Cesare era in Italia, e forse proprio per questo, scoppiò una nuova guerra.

Accadde che Publio Crasso il Giovane, mentre svernava con la VII legione fra gli Andi, visto che scarseggiava il grano aveva mandato vari tribuni e prefetti (comandanti di cavalleria) per acquistare grano ed altri viveri dalle popolazioni vicine. Tito Terrasidio era stato inviato tra gli Osismi, Marco Trebio Gallo tra i Coriosoliti, Quinto Velanio e Tito Sillio fra i Veneti.

Tutte queste popolazioni avevano negoziato con Publio Crasso le condizioni di pace, consegnando ostaggi a garanzia. Fatto sta che mutato parere imprigionarono i nostri inviati, forse nell'intento di riavere gli ostaggi, che essi stessi avevano volontariamente consegnato.


Publio Crasso

La sincronia delle azioni, il reciproco scambio di giuramenti con la promessa di affrontare uniti i Romani, convinsero Crasso che i Druidi fossero gli istigatori di questi misfatti.

In verità presso le tribù, che i Galli chiamano Aremoriche, i Druidi hanno grandissima autorità, rafforzata dal fatto che gli Aremorici guardano più all'Oceano che all'interno della Gallia e isolati come sono coltivano tutte quelle superstizioni e quei riti misteriosi che i Druidi sono soliti celebrare. 

Pertanto, consigliati dai Druidi, mandarono una comune delegazione intimando a Crasso che se voleva rivedere i suoi restituisse i loro ostaggi. 

 

VIII – Cesare informato dei fatti, non sottovalutò l'insurrezione degli Aremorici, pensava che fosse necessario stroncarla decisamente, prima che altri Galli, incoraggiati dai Druidi, entrassero nell'alleanza.

Peraltro avendo saputo che la forza di questi popoli marinari sta nelle loro flotte, non potendo muoversi dall'Italia, ordinò che sul fiume Liger (Loira), che sbocca nell'Oceano, fossero costruite navi e contemporaneamente si arruolassero nella provincia i marinai necessari.

Appena possibile avrebbe raggiunto Crasso.

 

IX – Con la fine dell'inverno Cesare raggiunse Crasso, che aveva tempestivamente eseguito gli ordini ricevuti e in pari tempo aveva fatto venire navi e marinai dai Pittoni e dai Santoni e dagli altri paesi pacificati.

Quando i Veneti ed i loro alleati seppero dell'arrivo di Cesare, compresero che i loro atti avevano reso inevitabile la guerra, pertanto allargarono l'alleanza ai Namneti, i Diablinti, i Venelli, gli Ambiani, i Caleti, i Morini ed i Menapi.

Chiesero inoltre che dalla Britannia fossero inviati loro rinforzi. 
E proprio dalla Britannia si dice che siano originari i Druidi.
Del resto pochi dubbi potevano esserci che dietro a questa insurrezione ci fossero i Druidi. Infatti i Veneti non sapevano neppure dove abitassero i Morini, o i Menapi, mentre i Druidi erano presenti dovunque.

Probabilmente i Druidi pensarono che avendo attirato Cesare così lontano dalla Provincia, sarebbe stata più facile la vittoria.
Comunque siano andate le cose i preparativi di guerra proseguirono con la fortificazione delle città e l'incetta di frumento.

Cesare mandò Tito Labieno dai Treveri perché tenessero a bada le tribù Belgiche e impedissero ai Germani di attraversare il Reno. 

Ordinò a Crasso di andare in Aquitania con dodici coorti (oltre 5 mila legionari) e un gran numero di cavalieri per evitare che da lì partissero aiuti per gli Aremorici. Quinto Sabino, con tre legioni, fu mandato nelle terre dei Venelli e dei Lessovi per impedire loro di raggiungere i Veneti.

Decimo Giunio Bruto fu posto a capo della flotta.


Decimo Giunio Bruto

 

X – Cesare, preso il comando dell'esercito, seguendo il corso del Ligier, entrato nelle terre dei Namneti, cominciò ad attaccare le città nemiche, ma dopo averne espugnate diverse, si rese conto che era un inutile spreco di energie.

Infatti le città degli Aremorici, poste alla estremità di promontori, sono protette dalle alte maree, tanto da rendere impossibile il loro assedio. Accadeva così che quando i Galli stavano per essere sopraffatti facevano affluire un gran numero di navi sulle quali imbarcavano se stessi e i loro beni, per riparare nelle vicine città.

Cesare decise quindi di attendere l'arrivo della flotta.

 

XI – Decimo Bruto quando arrivarono le navi mandate dai Pittoni e dai Santoni, popoli che come gli Aremorici affacciano sull'Oceano, vide che erano molto diverse da quelle che noi avevamo costruito.

La poppa e la prua erano molto più alte delle nostre, il fondale più piatto per non arenarsi quando arrivavano le basse maree, per resistere ai venti Oceanici le vele erano di pelle e non di lino, gli scafi interamente di rovere, con le travi delle traverse spesse un piede (circa 30 cm),le ancore erano assicurate da catene di ferro anziché da funi.

Per tutte queste ragioni, in particolare modo per la loro robustezza erano in grado di resistere alla violenza delle tempeste meglio delle nostre agili navi e in pari tempo per quella stessa robustezza era inutile tentare di speronarle con il rostro. Inoltre l'altezza della prora e della poppa consentiva di scagliare le frecce da un'altezza assai maggiore di quella che potevano offrire le nostre imbarcazioni.

L'unico elemento a nostro favore consisteva nella velocità e nell'agilità di manovra data dai remi, che i barbari non usano.

Preso atto della situazione, Decimo Bruto ordinò che fossero simulate delle battaglie, cercando di capire come sfruttare l'unico vantaggio offerto dai remi.

Ciò fatto salpò verso Darioritum (oggi Vannes).

 

XII – Quando la nostra flotta fu avvistata, i nemici usciti dal porto con duecentoventi navi, sulle quali avevano imbarcato ogni specie di armi, si schierarono di fronte alle nostre imbarcazioni.

Tutte le alture che circondavano il porto erano occupate dai nostri soldati quando iniziò la battaglia.
Contando sui vantaggi sopraddetti le navi nemiche vennero all'attacco.

I nostri fidando sulla maggiore velocità allargarono al massimo lo schieramento, in tal modo quando una nave nemica veniva a tiro, due o tre delle nostre la circondavano e con lunghe pertiche sulle quali erano fissate delle affilatissime falci, agganciavano le funi che tendevano le vele nemiche, poi con un violento colpo di remi arretravano spezzandole.

A questo punto le vele cadevano e le navi, prive com'erano di remi diventavano ingovernabili, i nostri allora andavano all'arrembaggio e grazie al loro irresistibile valore, una dopo l'altra prendevano le navi, sotto gli occhi dell'esercito e di Cesare.

I barbari, visto che contro la nostra tattica non c'era rimedio, dopo aver perso diverse navi, presero il largo, ma all'improvviso il ventò calò.
La bonaccia fu quanto mai opportuna, infatti Decimo Bruto ordinò di andare a forza di remi in caccia delle imbarcazioni nemiche, delle quali ci impadronimmo. Solo pochissime con il favore delle tenebre si misero in salvo.
Si era combattuto dall'ora quarta sino al calar del sole (all'incirca dalle 10 di mattina alle 8 di sera).

Perdute le navi i nemici, senza possibilità di fuga, senza possibilità di difendere le loro città, si arresero.

Cesare, volendo dare un esempio che fosse di ammonimento agli altri Galli e soprattutto ai Druidi, mise a morte i capi della rivolta e ridusse in schiavitù i guerrieri.

 

XIII – Titurio Sabino era giunto tra i Venelli ai quali si erano aggiunte le popolazioni insorte, tra queste anche quelle degli Aulerci, degli Eburovici e dei Lessovi.

Gli insorti uccisi i loro senatori (traduzione romana per riferirsi ai maggiorenti), avversi alla guerra, avevano raggiunto Viridiovice, nominato comandante in capo, che poteva quindi contare su un grande esercito.
Sabino si accampò, in posizione favorevole, sulla riva sinistra di un fiume che sbocca nell'Oceano Britannico.

Sull'altro lato del fiume giunse Viridiovice, con tutte le sue numerose truppe.
Mentre Sabino se ne stava al riparo delle fortificazioni, ogni giorno Viridiovice schierava i suoi in ordine di battaglia, ma non attraversava il fiume.
Sabino non volendo rinunciare al vantaggio delle posizione, restava chiuso nel campo.

Dopo qualche giorno Viridiovice, per provocarci, cominciò a mandare oltre al fiume qualche guerriero che arrivato sotto al vallo lanciava insulti.
La ragione prima per la quale Viridiovice voleva la battaglia era che per la sua imprevidenza stava finendo i viveri, ma allo stesso tempo non voleva concedere a Sabino il vantaggio della favorevole posizione.

Con il passare dei giorni i Galli si fecero sempre più irridenti e i nostri si chiedevano cosa mai aspettasse Sabino per dare il segnale di battaglia.
Visto che Viridovice non si decideva ad attraversare il fiume, allora Sabino, fece circolare la voce che di lì a poco avrebbe abbandonato il campo per andare in aiuto a Cesare. Appena arrivarono ai barbari queste notizie, cominciarono a strepitare che non si doveva permettere ai Romani di ritirarsi, ma senza perdere tempo si doveva irrompere nel loro campo e farne strage.
Viridiovice e gli altri capi concessero di prendere le armi e andare all'attacco, forzati anche dalla penuria di cibo che altrimenti li avrebbe costretti alla ritirata.

I barbari per riempire il fossato raccolte quante più fascine potevano,  attraversato il fiume, di gran corsa salirono lungo il pendio che conduceva al nostro campo.

Quando Sabino vide che tutti avevano attraversato il fiume, arringati i suoi, diede l'atteso segnale.
Nel momento in cui i nemici, gravati dal peso delle fascine, erano prossimi al fossato i nostri usciti, da due porte, si precipitarono su di loro.

Il terreno favorevole, la sorpresa, la stanchezza dei nemici dopo la lunga corsa, il valore dei legionari, fecero sì che i barbari non ressero neppure al nostro primo impeto, dandosi alla fuga, inseguiti dai nostri freschi di forze.

Quelli di loro che riuscirono a sfuggire ai legionari, furono raggiunti dalla nostra cavalleria.
In pochi sopravvissero.

Giunta la notizia della vittoria di Cesare, tutti i popoli insorti, perduta ogni speranza, si arresero a Titurio.


Titurio Sabino

 

XIV – Mentre Titurio Sabino se la vedeva con i Venelli e gli altri popoli della costa, Publio Crasso entrò in Aquitania.

Questa parte della Gallia confina a settentrione con il fiume Garumna (Garonna), a meridione con i Pirenei e ad oriente con la Provincia.

Per le sue verdi pianure, solcate da grandi fiumi, l'Aquitania è detto il paese dalla fertile zolla. A differenza del resto della Gallia il suo clima è temperato.

Densamente abitata, ha una popolazione che è circa un terzo di quella dell'intera Gallia. Innumerevoli sono gli uomini atti alle armi, come in passato abbiamo dovuto apprendere con le sconfitte di Lucio Valerio Preconino (nel 65) e di Lucio Manlio Torquato (console nel 65 e proconsole nel 64).

Come già detto Crasso era stato mandato in Aquitania per impedire che fossero mandati aiuti agli Aremorici ed anche per spegnere le velleità di invadere la Provincia.

Crasso per quanto giovane non mancava di prudenza e previdenza, pertanto si rifornì abbondantemente di grano, arruolò numerosi ausiliari e richiamò molti tra i più valorosi veterani da Tolosa, Carcassona e Narbona.

Ciò fatto entrò nel territorio dei Soziati.

 

XV – Quando i Soziati seppero dell'arrivo di Crasso, chiamarono alle armi un gran numero di guerrieri, tra i quali eccellevano i cavalieri.

I nostri erano entrati da pochi giorni in terra nemica, quando, mentre stavano in marcia, furono assaliti dalla cavalleria si accese un combattimento furibondo nel quale i Soziati ricorsero ad ogni astuzia.

La battaglia fu lunga e accanita, ma alla fine i Galli, provati dalle ferite voltarono le spalle.
Dopo averli sconfitti, Crasso andò all'attacco della loro principale città fortificata, Sotium.
Vista la forte resistenza, Crasso decise di passare all'assedio.

I Soziati si difesero con estremo vigore, ma quando i viveri e soprattutto l'acqua cominciarono a scarseggiare, Sotium non ha fiumi nelle vicinanze, chiesero a Crasso di accettare la loro resa.
Per le fertili pianure e i grandi pascoli, i popoli dell'Aquitania sono soprattutto pastori e contadini, ma avendo anche grandi giacimenti di rame e di altri metalli, molti di loro lavorano nelle miniere, in conclusione queste genti più che ad invadere le terre di altri si preoccupano di difendere le proprie.

Cesare pertanto aveva ordinato a Crasso di usare nei loro confronti prudenza e clemenza.
Non andavamo in cerca di nuovi nemici, volevamo bensì ammonire gli Aquitani a non essere nostri nemici.
Crasso quindi accettata la resa, a garanzia della pace, si limitò a chiedere la consegna di ostaggi.

Non di meno il loro capo Adiutano, forse diffidando della parola di Crasso, nel cuore della notte tentò una sortita con seicento solduri.
Gli Aquitani chiamano solduri, quei guerrieri che fedeli al loro capo, ne condividono i privilegi, così come nell'avverso Fato la sorte.

Adiutano con i suoi fu intercettato e respinto in città.

Crasso tuttavia confermò anche a lui le condizioni già concordate.

 

XVI – La sconfitta dei Soziati e la caduta della loro capitale, che era considerata imprendibile, atterrì gli altri popoli dell'Aquitania, persuasi che i Romani la volessero occupare.

Pertanto nell'intento di difendere le proprie terre unirono le propri forze i Cocosati, i Tarbelli, gli Elusati, i Tarusati e gli Ausci e, disponendo di grandi ricchezze, fecero venire dalle tribù della Spagna Citeriore, che confinano con l'Aquitania, (i paesi Baschi) guerrieri e comandanti che per aver combattuto sotto la guida di Quinto Sertorio si riteneva che conoscessero meglio di altri come condurre la guerra.

E di fatto costoro, secondo l'uso Romano, cominciarono ad occupare posizioni strategiche, a sbarrare le strade per impedire ai nostri gli approvvigionamenti, mentre ogni giorno cresceva il numero dei loro soldati.  

Crasso, stimate insufficienti le proprie forze per poter resistere a lungo all'offensiva nemica, decise di bruciare i tempi andando all'attacco senza indugi.

 

XVII – Riunito il consiglio di guerra espose il suo piano; visto che tutti erano d'accordo fissò l'attacco per il giorno seguente.

Ma pur avendo schierato l'esercito vicino al campo dei nemici, questi non accettarono la battaglia. Pensavano infatti che, avendo tagliato le vie di approvvigionamento, vinti dalla mancanza di viveri di lì a poco ci saremmo ritirati, a quel punto mentre eravamo incolonnati, appesantiti dagli zaini, ci avrebbero attaccato.

Pertanto se ne stavano chiusi nel loro accampamento, pur nella certezza che per il loro numero e il loro valore, loro sarebbe stata la vittoria.

Crasso compresa quale fosse la loro decisione, arringati i soldati mosse all'attacco. Il combattimento si stava svolgendo ormai da lungo tempo, quando i nostri cavalieri girando attorno al campo degli Aquitani, videro che il lato opposto al nostro era stato debolmente fortificato.

Ancora una volta veniva dimostrata la pigrizia e la mancanza di disciplina dei Galli. Infatti avevano fortificato ottimamente quella parte del loro accampamento che fronteggiava il nostro, ma a quello più lontano avevano riservato scarsa cura, pensando che non sarebbe stato oggetto del nostro attacco.

A questo punto Crasso ordinò che tutta la nostra cavalleria, con le coorti tenute di riserva aggirasse il campo nemico senza farsi vedere, quindi ad un suo segnale andasse all'attacco con il massimo vigore.  

Al segnale di Crasso i nostri aperto un varco nelle fortificazioni, prima che i nemici se ne accorgessero erano entrati nel loro campo. Presi dal panico i barbari, circondati da ogni parte, cominciarono a fuggire, inseguiti dai nostri cavalieri, che tornarono da Crasso solo a notte inoltrata.

 

XVIII – Sconfitti prima i Soziati, poi la lega degli Aquitani, questi, che avevano schierato contro i Romani così grandi forze, finendo tuttavia annientati, si arresero a Crasso mandando spontaneamente ostaggi.

A loro si aggiunsero anche i Biturici, la cui capitale Burdigala (Bordeaux) domina l'immensa foce della Garumna. Fidando nell'arrivo dell'inverno, solo la lontana tribù dei Vivisci non mandò ostaggi.

Secondo gli ordini ricevuti, Crasso usò con i vinti grande clemenza, unico tributo richiesto fu il grano, di cui quelle regioni abbondano.

La notizia della vittoria di Pubblio Crasso, rallegrò Cesare, che lo amava come un figlio e ne apprezzava il valore e l'accortezza.

La clemenza mostrata verso gli Aquitani valse a pacificare questi popoli, con grande beneficio della Provincia e di loro stessi, poiché grazie allo sviluppo dei commerci si diffuse per ogni dove una grande ricchezza.

Favorì grandemente l'attività dei mercanti il miglioramento e la pavimentazione della via Aquitania, che da Narbo Martius arriva a Burdigala passando per Tolosa, infatti la Garonna ha un flusso tanto irregolare da renderla navigabile solo saltuariamente, sempre con il rischio di piene improvvise.

 

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