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BOOK XIII - DA BRINDISI A FARSALO

I – Tornato a Roma Cesare, in qualità di dittatore, tenne i comizi per l'elezione dei consoli.

I comizi centuriati (l'assemblea popolare) designarono Cesare stesso e Publio Servilio Vatia (per l'anno successivo il 48).

Poiché in tutta l'Italia era deflagrata la crisi del credito, Cesare designò degli arbitri con il compito di comporre equamente le pendenze tra creditori e debitori, volendo evitare che coloro che per le proprie ricchezze erano in grado di restituire il credito, sfuggissero agli obblighi contratti e coloro che versavano in condizioni di povertà non fossero oppressi dai creditori. In pari tempo reintegrò nei propri diritti quei cittadini che, per effetto della legge Pompeia (del 52), con vari pretesti ne erano stati privati.
Infine concesse la cittadinanza agli abitanti della Gallia Cisalpina.

Dopo undici giorni depone la dittatura e parte per Brindisi dove aveva fatto venire dodici legioni e tutta la cavalleria (nominalmente oltre 50 mila fanti e 6 mila cavalieri).
Ma durante la sua assenza non era stato possibile requisire un numero di navi sufficiente a trasportare tutto l'esercito, quelle disponibili potevano imbarcare trasportare non più di quindicimila uomini e cinquecento cavalieri.

A ciò si aggiunga che per effetto della campagna di Spagna e del malsano clima di Brindisi (infuriava la malaria), gli effettivi delle legioni erano ridotti.

 

II – Pompeo, approfittando del tempo che aveva avuto a disposizione mentre noi combattevamo in Spagna, aveva raccolto nove legioni, parte portate dall'Italia, parte costituite da veterani che si trovavano in Cilicia, in Macedonia ed a Creta.

Aveva completato l'organico di queste legioni con soldati presi in Tessaglia, in Acaia, in Macedonia e nell'Epiro e attendeva altre due legioni che dalla Siria doveva condurre suo suocero, Metello Scipione. Disponeva inoltre di tremila arcieri, milleduecento frombolieri e settemila cavalieri, provenienti dalla Cappadocia, dalla Macedonia, dalla Tracia, dalla Siria, dalla Dardania e dalla Galazia, questi ultimi guidati dal loro stesso re Deiotaro.

Aveva raccolto una grande flotta dall'Asia, dalle isole Cicladi, da Rodi, da Corcira, da Atene, dal Ponto, dalla Bitinia, dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Fenicia e Gneo Pompeo figlio aveva condotto dall'Egitto con la flotta cinquecento soldati che Aulo Gabinio aveva lasciato quali guardie del corpo del re Tolomeo Aulete.

Gneo Pompeo figlio Tolomeo Aulete

Aveva ammassato una enorme quantità di grano a Durazzo e ad Apollonia dove intendeva svernare.
Per impedire che Cesare attraversasse il mare aveva distribuito la flotta lungo tutte le coste.

Pompeo figlio comandava le navi Egizie, Decio Lelio e Gaio Triario le Asiatiche, Gaio Claudio Marcello (console in carica) le Rodie, Gaio Cassio Longino (da non confondere con il tribuno della plebe Quinto Cassio, Longino) le Siriache, Scribonio Libone e Marco Ottavio le flotte Greche.

A capo di tutti era Marco Bibulo (già console assieme a Cesare nel 59), genero di Catone.


Marco Bibulo

Per pagare un esercito tanto numeroso e sostenere il lusso di tutti i comandanti che da sovrani orientali si circondavano ciascuno di una propria corte e di innumerevoli servi, furono dai Pompeiani imposte tasse di ogni genere ai popoli soggetti.

 

III – Cesare arrivato a Brindisi si rivolse ai soldati dicendo loro di imbarcarsi per la vittoria e di confidare nella sua generosità.

Un solo grido si levò, li conducesse dove voleva, lo avrebbero seguito dovunque.
Il quattro Gennaio (del 48) levammo le ancore.
Sulle navi, lasciando a terra i bagagli, si erano imbarcati cinquecento cavalieri e sette legioni, che come detto non erano a pieno organico.

Con grandi sforzi riuscimmo a imbarcare oltre ventimila uomini.
Il giorno successivo sbarcammo in Epiro a Paleste (oggi Palasa) senza essere intercettati da Bibulo che con centodieci navi da guerra stava a Corcira, mentre solo dieci navi da guerra scortavano il nostro convoglio.

Bibulo non fece a tempo a salpare perché le sue navi non erano pronte e i rematori vagavano per l'isola.
Sbarcati i soldati Cesare rimandò a Brindisi Fufio Caleno con le navi.


Fufio Caleno

Ma a causa dei venti sfavorevoli la flotta di Caleno fu raggiunta dalle navi da guerra di Bibulo, salpato da Corcira (Corfù) nella speranza di intercettare Cesare.
Trenta navi caddero nelle mani di Bibulo che sfogò la sua rabbia incendiandole e facendo morire marinai e capitani.
Compiuta questa prodezza schierò le sue navi lungo le coste dell'Epiro.
Caleno riuscì a riportare il grosso della flotta a Brindisi.

La negligenza di Bibulo aveva mandato in fumo la speranza di Pompeo di impedire a Cesare lo sbarco in Epiro, del resto questo era quello stesso Bibulo che, fatto eleggere console dagli Ottimati per osteggiare Cesare, fu così inetto che il Popolo Romano argutamente diceva che Roma aveva due consoli: Giulio e Cesare.

 

IV – Marco Ottavio arrivò con la sua flotta al largo di Salona, non riuscendo né con le promesse, né con le minacce a farsi aprire le porte della città, l'assediò cingendola con cinque campi.

I cittadini, stremati dalle ferite, ricorsero all'estremo rimedio di liberare tutti gli schiavi adulti, ma, protraendosi l'assedio, soffrivano soprattutto per la mancanza di grano, inviarono dunque messi a Cesare chiedendogli di mandare loro rifornimenti.

Con il passare del tempo poiché gli assedianti allentavano la vigilanza, un giorno a mezzogiorno gli assediati, quando i nemici si allontanavano per il rancio, disposero sulle mura donne e fanciulli, perché nulla sembrasse diverso dal solito, poi formata una schiera irruppero sul più vicino accampamento di Ottavio, espugnatolo, assalirono il secondo, poi il terzo, il quarto e quindi l'ultimo.

Da tutti cacciarono i Pompeiani, ne fecero ampia strage, costringendo gli altri e lo stesso Ottavio a fuggire sulle navi.

Ottavio, incombendo l'inverno, risultata vana la speranza di impadronirsi della città, si ritirò a Durazzo (Epidamno) presso Pompeo.

 

V – Cesare, avendo recentemente liberato Lucio Vibulio Rufo, prefetto di Pompeo, che già due volte era caduto nelle sue mani (a Corfinio prima, in Spagna poi), decise di inviarlo, latore di proposte di pace, da Pompeo sul quale aveva una certa influenza.
Cesare proponeva di deporre le armi, entrambi avevano dovuto sopportare diverse traversie: Pompeo aveva perso l'Italia, la Sardegna, la Sicilia e le province Spagnole e centotrenta coorti di cittadini Romani in Spagna ed in Italia, lui stesso doveva lamentare la perdita di Curione con la disfatta del suo esercito in Africa e di quello di Gaio Antonio a Curicta (oggi Vikla in Dalmazia). Non dovevano sfidare oltre la fortuna.

Le condizioni di pace, poiché prima non si erano potuti accordare, dovevano essere stabilite a Roma dal Senato e dal Popolo. 
Se entrambi avessero giurato in presenza delle truppe di congedare entro tre giorni gli eserciti, necessariamente avrebbero accettato la decisione del Popolo e del Senato. Rufo cavalcando di notte e di giorno raggiunse Pompeo sulla via Egnatia, in Candavia annunciandogli che Cesare era vicino.
Turbato dalla inattesa notizia Pompeo a marce forzate si avviò verso Apollonia per impedire a Cesare di occupare le città della costa.

Quanto alle proposte di Cesare disse che sarebbe tornato a Roma da vincitore e non certo per sua concessione.

Cesare intanto, poiché i Pompeiani avevano il dominio del mare, stabilì di occupare la costa, per impedir loro di approvvigionarsi in particolare d'acqua, pertanto marciò su Orico (oggi Orikum in Albania, 50 km a sud di Apollonia) dove per ordine di Pompeo si trovava Lucio Torquato con una guarnigione. Ma gli abitanti rifiutarono di obbedire agli ordini di Torquato, dichiarando di essere pronti ad accogliere Cesare in città. Torquato senza speranza di ricevere aiuti, si arrese a Cesare che lo lasciò andare incolume. 

 

VI – Presa Orico, Cesare senza indugiare si dirige verso Apollonia.
Lucio Staberio che aveva il comando della città, saputo del suo arrivo, ordina di trasportare acqua sull'acropoli e di fortificarla, allo stesso tempo pretende ostaggi dagli Apolloniati, ma questi non solo si rifiutano di consegnarli, ma aggiungono che non avrebbero chiuso le porte della città al console.

Staberio vista la mala parata fugge di nascosto.
Gli abitanti aperte le porte accolgono Cesare.

I Bullidensi (sulla riva destra del Voiussa a 30 km da Apollonia), gli Amantini (sulla riva sinistra del Voiussa a 25km da Bullis), le popolazioni vicine, tutte le città dell'Epiro seguono l'esempio degli Apolloniati e si mettono agli ordini di Cesare.

Apprese queste notizie, Pompeo si affretta verso Durazzo (Epidamno), marciando notte e giorno. Ma un tale panico corre nel esercito, che quasi tutti i soldati dell'Epiro e delle zone vicine disertano.

Quando Pompeo si accampa vicino a Durazzo, mentre l'esercito era ancora nel panico, si fa avanti Labieno giurando che mai lo avrebbe abbandonato, stesso giuramento fanno i legati, i centurioni ed alla fine tutto l'esercito.
Cesare visto che la strada per Durazzo era occupata, rallenta la marcia e pone il campo sulle rive del fiume Apso (oggi Semani in Albania).

Avendo occupato tutta la costa fino quasi a Durazzo, fortificata con torri e posti di guardia la linea a protezione delle città che erano passate dalla sua parte, decide di attendere il resto dell'esercito e di svernare sotto le tende.

Lo stesso fa Pompeo sull'altra riva del Apso. 

 

VII – Caleno imbarcate a Brindisi le legioni e i cavalieri, secondo gli ordini di Cesare, per quanta era la capacità delle navi, salpò; ma era appena uscito dal porto, quando gli fu consegnata una lettera di Cesare che la quale lo informava che tutta la costa era presidiata dalla flotta di Bibulo.

Appresa la notizia Caleno rientra in porto, una sola nave di un privato prosegue il viaggio, ma quando fu al largo di Orico venne catturata da Bibulo, che condannò a morte tutti, schiavi e liberi, fanciulli compresi e li uccise uno per uno.

 

VIII - Bibulo si trovava con la flotta al largo di Orico e se teneva Cesare lontano dal mare del pari era da Cesare tenuto lontano dalla terra e poiché presidiavamo tutta la costa si trovava in grande difficoltà, costretto a far arrivare i rifornimenti, soprattutto l’acqua, da Corcira (Corfù).

Mentre si trovava in tali ristrettezze Scribonio Libone, che con la sua flotta aveva raggiunto Bibulo, chiese ai legati di Cesare, Manlio Acilio e Stazio Murco, che presidiavano la città, di parlare con Cesare e per rendere la cosa più credibile, dice che voleva negoziare con Cesare una tregua.

Ma quando Cesare arrivò comprese che l’unico intento di Libone e di Bibulo era quello di ottenere il permesso di approvvigionarsi, quindi rispose che se volevano che allentasse il blocco sulla terra dovevano allentare il blocco sul mare, ma se lo mantenevano anche lui lo avrebbe mantenuto.

Bibulo, ammalatosi per il freddo invernale, non volendo abbandonare il comando venne a morte.

 

IX – Tra gli accampamenti di Cesare e Pompeo vi era solo il fiume Apso.

Vista la tregua imposta dall’inverno tra i soldati di entrambi gli schieramenti per mutuo accordo si facevano frequenti colloqui senza che venisse scagliato alcun proiettile. Cesare pertanto manda il legato Publio Vatinio perché facesse tutto il possibile per arrivare alla pace.


Publio Vatinio

Vatinio, portatosi sulla riva del fiume, con voce commossa chiese se era lecito a cittadini mandare ai propri concittadini ambasciatori per impedire che cittadini prendessero le armi contro i propri concittadini. Parlò a lungo ascoltato in silenzio con la massima attenzione dai soldati di entrambi gli schieramenti.

Si rispose dalla parte avversa che Aulo Varrone il giorno successivo si sarebbe presentato per esaminare insieme come i nostri ambasciatori potessero venire senza pericolo ed esporre ciò che volevano.
Si stabilisce un’ora precisa per l’incontro.

Il giorno successivo accorre dalle due parti una gran folla.
Grande è l’attesa, gli animi di tutti sono rivolti alla pace.

Ma ecco che accompagnato dai suoi si fa avanti Labieno, insulta Vatinio e grida che non vi può essere accordo se non quando gli verrà portata la testa di Cesare.


Labieno

I colloqui sono interrotti mentre Labieno ordina ai suoi di scagliare frecce contro Vatinio, che protetto dagli scudi dei suoi soldati le schiva, ma molti vengono feriti.

Labieno in Gallia era stato legato di Cesare e aveva ricevuti molti benefici, ma per il suo carattere impulsivo e tracotante, aveva creato non poche difficoltà, tanto che molti dei capi Galli, per causa sua presero ad odiare i Romani.

Per tali ragioni Cesare lo aveva allontanato dalla Gallia Belgica e mandato nella Provincia Narbonense, sostituendolo con Marco Antonio che con la sua cordialità riappacificò i Galli con i Romani.
Altre erano le ambizioni di Labieno, pertanto deluso nelle sue speranze, pieno di rancore passò nelle fila dei Pompeiani, ma non fece un grande affare, una lunga fila di Ottimati, tra parenti di Pompeo e di Catone, consoli ed ex consoli, governatori di province, senatori lo precedevano.

Pompeo lo considerava un buon comandante e nulla più.

 

X – A Roma intanto il pretore Marco Celio Rufo, amico di Cicerone, nell’intento di creare difficoltà a Cesare, propose la cancellazione dei debiti, scoppiarono disordini contro il pretore urbano Gaio Trebonio, vi furono feriti.
Il console Servilio riferito l’accaduto in Senato, rimosse dall’incarico Celio.

Celio allora inviò messi a Milone che nella causa per l’omicidio di Clodio era stato difeso da Cicerone. Milone, che era fuggito da Marsiglia quando era caduta nelle mani di Cesare, si affrettò ad unirsi a Celio e poiché aveva ancora dei gladiatori a Capua vi si diresse nell’intento di prendere la città.

Fallito il tentativo tentò di dare l’assalto a Compsa, ma colpito da una pietra lanciata dalle mura perì.
Nel frattempo Celio si era diretto a Turi dove Cesare aveva lasciato un presidio di cavalieri Galli e Spagnoli.

Celio tentò di corromperli.
Fu da questi ucciso.

In tal modo terminò miseramente il tentativo dei Pompeiani di sconvolgere l’Italia.

 

XI – Tramontata ogni speranza di pace, Libone, salpato con la sua flotta di cinquanta navi da Orico, giunse a Brindisi ed occupò l’isola che si trova davanti al porto.

Con la solita presunzione degli Ottimati scrisse a Pompeo che la sua flotta era sufficiente a bloccare i rinforzi di Cesare.
In quel tempo a Brindisi si trovava Antonio, che fidando nel valore dei veterani fece armare sessanta scialuppe delle grandi navi, vi fece salire soldati scelti e distribuite le scialuppe lungo il litorale, fece uscire fino all’imboccatura del porto due triremi.

Libone pensando di poterle catturare mandò contro di esse cinque quadriremi, allora i nostri veterani presero a ritirarsi entro il porto e quelle temerariamente le inseguirono. Ma nell’imboccatura del porto le manovre erano difficili, ad un segnale di Antonio le scialuppe andarono all’assalto dei nemici e al primo scontro catturarono una delle quadriremi con tutto l’equipaggio.

Le altre si diedero alla fuga.
Inoltre i cavalieri disposti da Antonio lungo tutta la costa impedivano ai Pompeiani di rifornirsi d’acqua.

Libone pertanto dovette abbandonare Brindisi e tornare ad Orico.

 

XII – L’inverno stava ormai volgendo al termine e da Brindisi non giungevano rinforzi, Cesare pertanto scrive ad Antonio di non perdere altro tempo ed appena i venti fossero propizi ordina di partire per Apollonia.

Antonio e Caleno, sollecitati anche dai soldati che volevano accorrere in aiuto di Cesare, appena da mezzogiorno soffiò un vento favorevole levano le ancore.

Il giorno dopo arrivano in vista di Apollonia, avvistati da Coponio, comandante della flotta Rodia, vengono aiutati dal vento che dopo essere calato riprende a soffiare vigorosamente, rallentando Coponio.

Giunti in vista del porto detto Ninfeo (oggi San Giovanni di Medua in Albania), mentre temevano, spinti dal vento, di infrangersi sugli scogli, all’improvviso si alza una tempesta in direzione contraria e il porto diventa sicurissimo. Travolte dalle onde tutte le sedici navi Rodie maggiori si schiantano sugli scogli e colano a picco.

Del gran numero di soldati e rematori parte affogò, parte fu salvata dai nostri.

 

XIII – Due delle nostre navi che erano rimaste attardate non sapendo dove si trovavano si ancorarono davanti a Lisso (oggi Alessio in Albania). Otacilio Crasso comandante della città le circondò con molte imbarcazioni, ma prima di assalirle trattò la loro resa, promettendo salva la vita.

Una di queste navi  imbarcava duecentoventi reclute, l’altra duecento veterani. Le reclute si arrendono e ad onta delle promesse Otacilio le fa uccidere sotto i suoi occhi.

I veterani, simulando di volere trattare la resa, tirano in lungo sino alla notte, trovato un luogo adatto all’approdo sbarcano e vi passano il resto della notte.
All’alba Otacilio manda contro di loro quattrocento cavalieri ed altri soldati. Ma i veterani uccisi un buon numero di nemici, raggiungono incolumi il nostro campo.

La comunità Romana di Lisso, cacciato Otacilio accoglie Antonio e lo aiuta in tutti i modi. Antonio dopo aver fatto sbarcare tutte le sue truppe, formate da tre legioni veterane, una di reclute ed ottocento cavalieri, rimanda le navi a Brindisi per trasportare altri soldati, trattenendo soltanto i pontoni (specie di navi galliche prive di chiglia), nel caso che Pompeo volesse attraversare l’Adriatico per tornare in Italia e Cesare dovesse inseguirlo.

Quindi invia messi a Cesare dicendogli dove si trova e quanti soldati aveva con sé.

 

XIV – Quasi nello stesso momento Cesare e Pompeo informati dei fatti, prendono decisioni opposte.

Pompeo per evitare che le truppe di Antonio si uniscano a quelle di Cesare, parte di notte, Cesare di giorno.
Ma Cesare doveva trovare un guado per passare l’Apso, mentre per Pompeo la via era più rapida.

Antonio, avvertito dai Greci dell’arrivo di Pompeo, si chiuse per un giorno nel suo campo.
Arriva Cesare.
Pompeo per evitare la battaglia si ritira e torna verso Durazzo (Epidamno).

 

XV – Nello stesso periodo Metello Scipione, nominato dal genero Pompeo governatore della Siria, nonostante avesse subito una sconfitta combattendo contro i Parti, ebbe l'impudenza di farsi chiamare imperator (comandante vittorioso).

Imposti pesanti tributi a tutta la provincia, ordinò di arruolare cavalieri.
Ciò fatto, lasciata perdere la guerra contro i Parti, portò l'esercito a Pergamo e per tacitare il malcontento dei soldati, che volevano difendere la provincia dai Parti, abbandonò alle loro razzie varie città, mentre in tutta la provincia imperversavano gli esattori.

Ricorrendo ad ogni espediente, si imponeva un tributo individuale per ogni schiavo e tasse sulle colonne, le porte, il grano, le armi, i rematori ed anche sulle macchine da guerra e sui mezzi di trasporto. Solo che di una cosa si trovasse il nome veniva tassata. L'insaziabile cupidigia di tali esattori non era mossa soltanto dagli ordini di Metello Scipione, ma costoro provvedevano largamente ai propri interessi.

Come se non bastasse Metello Scipione ordinò che fosse prelevato il tesoro del tempio di Efeso, che vi era custodito da tempo immemorabile.

Ma mentre un folto gruppo di senatori si avviava verso il tempio per prelevare il tesoro fu raggiunto da una lettera di Pompeo che ordinava di lasciar perdere ogni altra cosa e di raggiungerlo al più presto, a causa dell'arrivo di Cesare.

In verità pensiamo che Pompeo fu indotto a scrivere questa lettera per le lamentele dei provinciali, in ogni caso voleva che Metello Scipione arrivasse con le sue legioni. Il piano di Pompeo cominciava a delinearsi, intendeva stringerci dal mare con la sua flotta e da terra, contando sulla predominanza numerica del suo esercito.

 

XVI – Cesare, congiuntosi con l'esercito di Antonio, potendo contare su nuove forze ed essendo venuti dalla Etolia e dalla Tessaglia messi che gli annunciavano che le rispettive città erano pronte ai suoi ordini se avesse mandato loro un suo presidio, Mandò Lucio Cassio Longino (fratello di Gaio che militava nelle fila Pompeiane) in Tessaglia e Gaio Calvisio Sabino in Etolia, raccomandando loro di fare provvista di grano.

In pari tempo mandò in Macedonia con le legioni veterane XI e XII e cinquecento cavalieri Domizio Calvino.

Sabino accolto con grande cordialità dagli Etoli, cacciati i presidi Pompeiani, occupò l'Etolia.
Cassio in Tessaglia trovò la popolazione divisa tra Pompeiani e Cesariani.

Intanto mentre Domizio in Macedonia riceveva ambascerie di molte città, giunse la notizia che Metello Scipione stava arrivando con le sue legioni.

Questi quando era ormai prossimo a Domizio all'improvviso si volse contro Cassio in Tessaglia.
Per muoversi più rapidamente lasciò sul fiume Aliacmone (oggi Vistritza) Marco Favonio con otto coorti a guardia dei bagagli.

Cassio informato dell'arrivo del nemico si rifugiò sui monti della Tessaglia e da qui si mise in marcia verso Ambracia (oggi Arta in Grecia). Prima ancora che Metello Scipione iniziasse l'inseguimento fu raggiunto da una lettera di Favonio che chiedeva il suo aiuto poiché Domizio stava arrivando con le sue legioni.


Domizio Calvino

Mutati i piani Metello si affretta a soccorrere Favonio ed arriva giusto in tempo per precedere Domizio.

 

XVII - Metello Scipione fermatosi due giorni nel campo che aveva posto sulle rive del Aliacmone, che scorreva tra lui e Domizio, il terzo giorno passa a guado il fiume e si fortifica. Domizio esce dal suo campo con le sue due legioni veterane per attaccare battaglia, ma Scipione resta chiuso dietro al suo vallo.
Il giorno successivo spaventato dall’ardore dei nostri, levato il campo di notte torna sui suoi passi. Nei giorni successivi brevi scontri di cavalleria si risolsero in nostro favore.

Gneo Pompeo figlio arrivato con tutta la sua flotta Egizia ad Orico, dove Cesare aveva lasciato tre coorti, occupò il porto, ma non riuscì a prendere la città, lasciato a guardia del porto Decio Lelio, parti per Lisso, incendiò le trenta navi da guerra lasciate da Antonio, ma neppure in questo caso riuscì ad espugnare la città, difesa dai cittadini Romani e dalla guarnigione lasciata da Cesare. Costretto a rinunciare all’assalto dopo tre giorni riprese il mare.

Cesare intanto avendo saputo che Pompeo si trovava ad Asparagio, sulla riva destra del fiume Genuso (oggi Shkumbini in Albania) gli si fece incontro offrendogli battaglia, ma Pompeo restò chiuso nel suo campo, pensava infatti che dominando il mare avrebbe ricevuto a Durazzo ogni sorta di rifornimenti, mentre noi, per la mancanza di tutto, prima o poi saremmo stati costretti alla resa.

Cesare allora ricorse ad uno stratagemma fingendo di allontanarsi, mentre con un lungo giro puntò su Durazzo, nell’intento o di chiudervelo dentro, o di tagliarlo fuori dalla città nella quale aveva ammassato tutte le scorte di viveri e le macchine da guerra. 

Pompeo dapprima pensò che Cesare si ritirasse per mancanza di grano, quando i suoi esploratori lo avvertirono della manovra di Cesare, si affrettò verso Durazzo, ma i soldati di Cesare marciando anche di notte lo precedettero.
Pompeo tagliato fuori da Durazzo, fortificò il suo campo su un’altura chiamata Petra (oggi Sasso Bianco) con un modesto accesso per le navi.

Cesare visto che nei dintorni il grano scarseggiava, manda in Epiro a fare provviste il legato Lucio Canuleio.

 

XVIII - Per le ragioni sopra ricordate era chiaro che Pompeo voleva tirare la guerra il più a lungo possibile e se ne stava accampato con tutte le legioni a Petra, Cesare considerato che ai settemila cavalieri Pompeiani poteva opporne soltanto mille, poiché attorno al campo di Pompeo vi erano dei colli aspri e scoscesi decise di occuparli e fortificali, poi fece costruire da una fortificazione all’altra, secondo la natura del terreno una linea di difesa, per impedire alla cavalleria di Pompeo di attaccarci ed allo stesso tempo per intercettare i foraggi necessari per nutrire i numerosi cavalli dei nemici.

Pompeo poiché voleva evitare la battaglia si limitò ad occupare il maggior numero di colli a lui vicino per frazionare al massimo le nostre forze.
Era questo un modo nuovo e inusitato di combattere, infatti noi che eravamo inferiori di numero assediavamo i Pompeiani che per essere riforniti dal mare disponevano di ogni cosa, mentre noi consumate ormai tutte le messi ci trovavamo in grande ristrettezze.

Pure i soldati sopportavano queste cose con singolare pazienza, ricordavano che un anno prima in Spagna avevano sofferto gli stessi mali e così pure ad Alesia, ma alla fine essi e non altri erano stati i vincitori. Se mancava il grano non rifiutavano l’orzo, non ricusavano i legumi , tenevano poi in gran pregio la carne della quale in Epiro c’è grande abbondanza.

Fu anche scoperta una sorta di radice chiamata chara (simile alla patata) con la quale facevano dei pani e ve ne era in abbondanza. Un giorno accadde che i Pompeiani avvicinatisi al nostro vallo derisero i nostri dicendo che erano un esercito di straccioni affamati. Ma furono bersagliati da questi pani che in tutto e per tutto sembravano fatti di frumento.

In verità nessuno dei Pompeiani ebbe il coraggio di raccoglierli ed accorgersi dell’inganno.

 

XIX – Passavano i giorni tra brevi scontri, nei quali tuttavia i nostri veterani davano prova del proprio valore.

Ma con il passare del tempo il lungo indugio, che fino ad allora sembrava premiasse la tattica di Pompeo, cominciò a pesare sempre più acerbamente sui Pompeiani. Infatti avanzando l'estate, in mancanza di pioggia, il foraggio scarseggiava sempre di più e mentre parte dei fiumi andavano in secca, altri furono da noi deviati, tanto che i nemici cominciarono a soffrire la sete, mentre nel loro campo si levava l'orrido lezzo degli animali morti.

Dal nostro lato l'acqua abbondava e l'unica cosa che mancava era il grano, ma le messi stavano maturando.
Pompeo, nell'intento di forzare il blocco, fece salire sulle navi parte della cavalleria, che sbarcò a Durazzo.
Cesare parte verso la città, lasciando Publio Cornelio Silla (nipote del dittatore e Cesariano di antica data) a capo del campo.


Publio Cornelio Silla

Approfittando della sua assenza Pompeo, per forzare il blocco, attacca con quattro legioni (40 coorti) uno dei nostri fortini, difeso da una sola coorte della VI legione.

I legionari resistono fortissimamente per quattro ore, quando sopraggiunge con due legioni Publio Silla,  che mette in fuga i Pompeiani. Saggiamente Silla trattiene i soldati e non li insegue, temendo di farsi intrappolare dalle superiori forze nemiche tra le anguste strettoie di quel territorio. 

Nello stesso tempo si combatte in altri due punti, in uno di questi Lucio Volcazio Tullo (pretore urbano nel 46, console nel 33) tiene testa con tre coorti ad una legione nemica e la respinge.

Nell'altro i nostri valorosissimi Germani effettuata una sortita mettono in fuga un'altra legione e dopo averne fatto ampia strage, rientrano incolumi nelle fortificazioni.

 

XX – Durazzo si trova su una penisola collegata alla terra ferma da uno stretto istmo, Cesare per impedire che i cavalieri di Pompeo, sbarcati a Durazzo, arrivassero sulla terra ferma, raggiunto l’istmo, chiude le vie di accesso alla città, impedendo ai Pompeiani di foraggiare.

In quel giorno si combatterono sei battaglie tre davanti a Durazzo e tre sotto le nostre fortificazioni. I Pompeiani lamentarono duemila uomini tra morti e feriti, perdemmo dei nostri venti uomini, ma nel fortino non ci fu uno solo dei nostri  che non fosse stato ferito. A Cesare che vi si era recato furono contate circa trentamila frecce lanciate dai Pompeiani e gli fu mostrato lo scudo del centurione Sceva forato da centoventi colpi.

Cesare poiché il fortino non aveva ceduto in gran parte per il suo coraggio, gli donò duecentomila sesterzi (lo stipendio annuo di un centurione dell’ottavo grado come Sceva era di circa 2.500 sesterzi) e lo promosse dall’ottavo grado al primo (in una legione vi erano 60 centurioni divisi per grado, a capo di tutti era il primipilo), alla coorte raddoppiò lo stipendio  e decorò di sua mano i più valorosi.

Pompeo, fallito il tentativo di sfondare le nostre linee, dopo pochi giorni fa rientrare per mare la cavalleria nel proprio campo.

 

XXI – Nel campo nemico la penuria di foraggio si faceva sempre più pressante.
E poiché anche i rifornimenti che arrivavano per mare da Corcira e dall’Acarnania cominciavano a scarseggiare e i cavalli erano ormai emaciati per la magrezza, Pompeo fu costretto a tentare una sortita.

Fu in questo favorito dalla diserzione di due Allobrogi, costoro, sorpresi a frodare i propri commilitoni, furono rimproverati da Cesare, che peraltro visto il valore di cui avevano dato prova in passato non ritenne fosse quello il momento di punirli più severamente.

Ma questi temendo che più tardi sarebbero venute a galla tutte le loro malversazioni, fuggirono da Pompeo con pochi intimi.
Peraltro conoscendo a fondo delle nostre fortificazioni i punti deboli, con la loro delazione ci misero in pericolo.
Va aggiunto che questa era la prima volta che dalle nostre fila avveniva una diserzione, mentre quotidiane erano quelle dei Pompeiani.

Forte delle informazioni ottenute dai due Allobrogi, Pompeo, che aveva già deciso di tentare una sortita, si preparò ad attaccarci da terra e dal mare in quella parte della nostra linea che era tenuta da Lentulo Marcellino con la IX legione. Messe assieme sessanta coorti (circa 25 mila uomini) viene alla attacco, mentre dal mare le navi ci bombardano con le macchine da guerra.

La gran massa dei nemici mette in fuga i nostri, quand’ecco che dalle alture scende Marco Antonio con dodici coorti e poco dopo, avvertito da segnali di fumo,  arriva Cesare con alcune coorti prelevate dai presidi. 

Presa cognizione del rovescio dei nostri, constatato che Pompeo aveva rotto la nostra linea e si fortificava presso il mare, ordina di trincerarsi vicino al nemico.

 

XXII – Più tardi, mentre ci fronteggiavamo, gli esploratori di Cesare lo informano che possiamo tentare un colpo di mano. Cesare volendo riscattare il precedente rovescio, aggirata una legione Pompeiana, senza che il nemico se ne avvedesse, muove all’attacco. Il campo nemico era difeso da travi uncinate, ma i nostri mostrando il consueto valore, sfondano le difese nemiche ed espugnano il campo.

Ma si spingono troppo oltre dando tempo a Pompeo di mandare in soccorso dei suoi cinque legioni. È quindi la volta dei nostri ad essere messi in fuga, ma la strettezza dei luoghi impedisce ai Pompeiani di fare una carneficina e Pompeo temendo un nostro agguato, richiama le sue legioni.

In questa battaglia perdemmo novecento sessanta fanti, numerosi cavalieri, cinque tribuni militari, trenta centurioni e trentadue insegne.
Labieno si fece consegnare i prigionieri e dopo averli dileggiati li fece uccidere alla presenza di tutti.

 

XXIII – L’esito di questa battaglia gonfiò di stolta presunzione i Pompeiani, che divulgarono a tutto l’orbe terraqueo la notizia della nostra sconfitta. E non pensavano più alla conduzione della guerra, ma a come dividersi le spoglie dei vinti, si contendevano aspramente le cariche, Lentulo Spintere contendeva a Metello Scipione la carica di Pontefice Massimo (rivestita da Cesare) e questi la contendeva a Domizio Enobarbo.

Per ogni dove si accendevano liti e si arrivava alle ingiurie.

Lentulo Spintere Domizio Enobarbo

Intanto Cesare mutò completamente il suo piano di guerra.

Abbandonati gli avamposti, riunito in un unico punto l’esercito, arringò i soldati esortandoli a sopportare da uomini coraggiosi ciò che era accaduto.
Alle parole di Cesare tutto l’esercito fu preso dal desiderio di cancellare la vergogna della sconfitta.

Ma Cesare pensava che dovesse passare un po’ di tempo perché gli animi si rinfrancassero.
Intanto ricoverò i feriti ad Apollonia.

Il nuovo piano di guerra di Cesare si basava su questo ragionamento: poiché le risorse del territorio si erano esaurite per entrambe le parti, svanita la possibilità di una immediata vittoria, era necessario muoversi dove poteva trovare frumento e pascoli se, come sperava, Pompeo lo avesse seguito si sarebbe allontanato dal mare, dalla sua flotta e da Durazzo dove aveva accumulato ampie provviste, di conseguenza sarebbe stato costretto ad ingaggiare battaglia, per non restare a corto di ogni cosa; se viceversa fosse passato in Italia Cesare riunitosi con Domizio, passando per l’Illiria gli si sarebbe fatto incontro; ma per prevenire tale evenienza Cesare, avanzando contro Metello Scipione che si trovava in Tessaglia, avrebbe costretto Pompeo ad accorrere in difesa del suocero.

Pertanto alla quarta vigilia (tra le 3 e le 6 di mattina), mentre i Pompeiani dormivano, mosse il campo e si avviò verso la Tessaglia.
Troppo tardi Pompeo si avvide della nostra partenza, quando si mosse avevamo guadagnato sei ore.
Arrivati al fiume Genuso mentre cercavamo un guado, Pompeo lanciò contro la nostra retroguardia la sua cavalleria, ma Cesare oppose la propria cavalleria, rinforzata da quattrocento valorosissimi antesignani (cosiddetti perché difendevano le insegne delle legioni) .

I nemici furono respinti.
Nei giorni che seguirono i Pompeiani, desueti alle fatiche della guerra, non riuscirono più ad avvicinarsi alla nostra retroguardia. 

Inoltre mentre avanzavamo davamo alle fiamme tutti i pascoli, per ostacolare i foraggiatori nemici.
Dopo quattro giorni Pompeo rinunciò all’inseguimento e percorrendo la via Egnatia marciò verso Larissa per riunirsi con Metello Scipione.

 

XXIV – Mentre accadevano queste cose, Domizio Calvino cercava di ricongiungersi con Cesare, ma non sapendo dove si trovava, stava per cadere in bocca a Pompeo.

Per volontà del Fato alcuni dei suoi esploratori incontrarono due di quegli Allobrogi che avevano disertato. Costoro, o perché pentititi, o per l’amicizia che li legava agli antichi commilitoni, li misero in guardia dall’arrivo di Pompeo e li informarono dove si trovava Cesare.

Domizio prontamente portò il suo esercito verso Eginio sul fiume Peneo, ad un tempo sottraendosi a Pompeo e  facendosi incontro a Cesare.
In questo periodo Pompeo aveva mandato lettere per tutte le province e città, annunciando la sua vittoria a Durazzo ed aggiungendo che Cesare era in fuga avendo perduto gran parte del suo esercito. Fu così che quando giungemmo a Gomphi (oggi Paleo-Episkopis in Tessaglia), i cui abitanti pochi mesi prima si erano messi agli ordini di Cesare, quegli stessi abitanti ci chiusero le porte della città, mandando contemporaneamente messaggeri a Pompeo perché accorresse in loro aiuto.

Eravamo arrivati a Gomphi all’ora nona (circa le 15), non di meno i nostri soldati erano così indignati che dissero a Cesare che non li avrebbe fermati la stanchezza se dava l’ordine di assalire la città, che con le sue altissime mura sembrava imprendibile. Eppure poco prima del tramonto la città era espugnata. Cesare la concesse come preda ai soldati.

Quindi procedendo al massimo della velocità giunse a Metropoli (oggi Paleokastro) i cui abitanti avevano deciso di seguire l’esempio di quelli di Gomphi, ma quando appresero dai prigionieri che Cesare aveva condotto con sé, quale era stata la sorte della città, aprirono le porte.

Cesare tutelò la loro incolumità.

Da quel momento tutte le città della Tessaglia, eccettuata Larissa occupata da Metello Scipione, si diedero a Cesare.

 

XXV – Pochi giorni dopo Pompeo, riunitosi con Metello Scipione, arriva in Tessaglia.

Accresciute le forze con due grandi eserciti, ancora di più si rafforza nei Pompeiani la certezza della vittoria e sempre più aspre si fanno le discussioni per disputarsi le cariche e i beni dei Cesariani.

Tale era la certezza della vittoria che Lucio Domizio Enobarbo arriva a proporre che alla fine della guerra fossero date ai senatori tre tavolette per giudicare coloro che erano rimasti a Roma. Una tavoletta sarebbe servita per l’assoluzione, un’altra per le condanne a morte, la terza per le condanne pecuniarie.

 

XXVI – Cesare fatte le provviste di grano, osservata la voglia di combattere  dei soldati, decide di sfidare Pompeo e in pari tempo preparare l’esercito allo scontro decisivo. Poiché Pompeo poteva contare su settemila cavalieri e noi soltanto su mille, Cesare distribuisce tra i nostri cavalieri i più giovani e vigorosi degli antesignani, armati alla leggera.

La cavalleria Pompeiana quotidianamente provocata dai nostri, quando accetta lo scontro viene respinta, per quanto modesti fossero questi scontri tuttavia servirono ad aumentare la fiducia dei nostri.
Cesare inoltre per esasperare i Pompeiani non avvezzi alla fatica, sposta continuamente il campo, obbligandoli a continue marce.

Pompeo deve finalmente accettare la battaglia che aveva evitato da quando era fuggito dall’Italia. Ma ormai anche Pompeo era certo della vittoria tanto da affermare in consiglio che la cavalleria avrebbe aggirato il nostro fianco destro mettendo in rotta l’esercito senza che la fanteria dovesse scagliare un solo giavellotto. Dopo di lui, con stolta arroganza, parla Labieno, dice che dell’antico esercito di Cesare pochi sono i sopravvissuti, la massa dell’esercito viene dalla Gallia e dalle colonie Traspadane.

Dopo avere detto tali cose giura che non sarebbe tornato nell’accampamento se non vincitore, dopo di lui giura Pompeo, poi tutti gli altri.
Il consiglio si scioglie e già i Pompeiani pregustano la vittoria.

 

XXVII – Nella piana di Farsalo si prepara la battaglia.

Quando scende la sera Cesare riunisce il consiglio di guerra.
Spiega come prevede che si disporrà il nemico.
Gli ordini sono pochi e chiari.
All’alba del nuovo giorno gli eserciti prendono posizione.

I Pompeiani si schierano in questo modo: all’ala sinistra Pompeo con due legioni, affiancato da Labieno che guida tutta la cavalleria rinforzata da arcieri e frombolieri, al centro Metello Scipione con le legioni Siriache, all’ala destra Afranio con le altre legioni.
In totale quarantacinquemila uomini, duemila richiamati e settemila cavalieri.

Cesare schiera all’ala destra la X legione condotta da Publio Silla, all’ala sinistra Marco Antonio con la VIII e la IX legione, al centro Domizio Calvino con le restanti cinque legioni, tra le quali le veterane XI e XII.

In tutto ventiduemila uomini, mille cavalieri e mille ausiliari.

Publio Silla Marco Antonio Domizio Calvino

Cesare prende posizione davanti a Pompeo.
Osservato lo schieramento nemico e vedendo confermate le sue previsioni, prima che divampi la battaglia, Cesare distacca da ogni legione una coorte veterana, schierando le coorti così formate dietro alla cavalleria.

Si rivolge a quei soldati dicendo che ogni speranza di vittoria è riposta nel loro valore.
Arringato l’esercito, Cesare ordina che le trombe diano il segnale di battaglia ai soldati impazienti di combattere.

Era tra questi Crastino, richiamato dallo stesso Cesare, uomo di insuperabile valore, che fino all'anno precedente era stato il primipilo della X legione.

Questi appena fu dato il segnale gridò “Seguitemi vecchi compagni”, poi rivolto a Cesare disse “Oggi, imperator, vivo o morto che io sia tu mi dovrai rendere grazie”.

Ciò detto per primo si lanciò all'attacco seguito da centoventi volontari.

 

XXVIII – I nostri al segnale si lanciano avanti, mentre Pompeo trattiene i suoi, pensando di contrattaccare nel momento della nostra stanchezza, ma i legionari, appena se ne avvedono, rallentano il passo e prendono fiato.

Nello stesso tempo la cavalleria di Pompeo viene all’attacco.
I nostri cavalieri ripiegano.
I Pompeiani incalzano.
I nostri si aprono.

Appaiono le coorti veterane, le lance puntate.
La prima fila Pompeiana è sbalzata da cavallo.
Si alza un grido tremendo, irrompe la X legione con le spade sguainate.
Avanzano gli arcieri Ruteni, saettano i nemici.

Irrefrenabile è il nostro impeto, sgomento e terrore si impadroniscono dei Pompeiani.

Pompeo quando vede la rotta della cavalleria nella quale aveva riposto tutte le sue speranze lascia la battaglia, si rifugia nel suo accampamento, si ritira nel pretorio attendendo l’esito della battaglia.


Pompeo

Domizio Calvino e Marco Antonio al centro e all'ala sinistra rompono la linea nemica.
Cesare ricacciati i Pompeiani in fuga dietro al vallo, persiste nell’attacco.

I soldati benché grondanti di sudore per il gran caldo vanno all’assalto dell’accampamento.
I Pompeiani abbandonano le insegne, fuggono dal campo, si rifugiano sui monti.

Pompeo quando vede che i nostri hanno scalato il vallo, fugge con una scorta di trenta cavalieri e senza fermarsi neppure di notte si imbarca su una nave che trasporta grano.

Cesare impadronitosi dell’accampamento sollecita i soldati a lasciar perdere la preda.
È il momento di portare a termine l’impresa.


Cesare

I Pompeiani dopo aver tentato una nuova fuga, inseguiti da Cesare, assetati, spossati, al calare della notte si arrendono.

Cesare ordina che scendano dai monti e consegnino le armi, ciò fatto li lascia tutti vivi.

 

XXIX - In quella battaglia caddero dei nostri meno di duecento soldati, ma vennero a mancare trenta tra i più valorosi centurioni e tra loro anche Crastino.

Dei Pompeiani tra morti e feriti il sangue di quindicimila uomini inondò la piana di Farsalo.
In ventiquattromila si arresero, gli altri fuggirono nelle città vicine.
Furono prese centottanta insegne e nove aquile (ogni legione aveva la sua aquila).

Lucio Domizio Enobarbo mentre fuggiva verso i monti, sopraffatto dalla fatica, raggiunto dai cavalieri viene ucciso.

 

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